Terzo film per l’allora giovane regista statunitense Wes Anderson, uscito nel 2001, ha ricevuto soltanto una nomination agli Oscar come migliore sceneggiatura, ma il successo ottenuto tra il pubblico e l’immagine cult che ha assunto negli anni gli sono valsi il riconoscimento sperato.
Ci troviamo in una New York a tratti fiabesca degli anni ’70, in una famiglia dell’upper class del tempo, in cui i tre figli sono dei veri e propri bambini prodigio e diventano presto dei riferimenti rispettivamente nel campo della finanza (Ben Stiller), del teatro (Gwyneth Paltrow) e dello sport (Luke Wilson). Cresciuti e perduto il loro talento, sono diventati vulnerabili, nevrotici, depressi, mentre il loro padre (Gene Hackman), simpatica e irresponsabile canaglia, si rifà vivo, fingendosi malato terminale per riconquistare la famiglia. si ritrovano così a fare un tuffo nel passato della grande e colorata casa d’infanzia, nel bizzarro universo isolato dal mondo reale che sembra rimasto com’era.
Wes Anderson esalta le atmosfere eleganti, nostalgiche e surreali dei film precedenti, creando un mosaico di personaggi demodè, eccentrici e realistici allo stesso tempo. La sua grandezza è quella di riuscire, attraverso l’ironia delle sue figure stralunate, a parlarci in maniera lieve, originale e personalissima di sentimenti universali. Oscilla tra situazioni contraddittorie (è troppo tardi, non è mai troppo tardi), tra tenerezza e crudeltà.
Il film si presenta come una psicocommedia grottesca, omaggio e critica all’istituzione familiare. L’assenza di affetto paterno e una madre troppo debole per prendere decisioni risolutive evidenziano l’assenza di modelli da imitare per i bambini, che crescono e provano a maturare da soli, sbagliando a loro volta. I rapporti dei Tenenbaum sono tutti compromessi e l’unico modo per raddrizzarli spetta al padre, peccatore originale, che sul finale della pellicola si redime, cancellando l’insoddisfazione, i fallimenti e le incomprensioni.