“Italiani brava gente”. Nella nostra breve storia unitaria questa frase ha veicolato un’immagine “umana” degli abitanti dello “Stivale” anche e soprattutto nel contesto dei più tragici eventi del XX secolo. Al pari di ogni luogo comune, tuttavia, essa si presenta come solo superficialmente veritiera ed, anzi, di fronte alla prova dei fatti storici è quantomai evidente la sua tendenza ad edulcorare se non proprio cancellare le responsabilità italiane in orrendi crimini del passato. Moltissimi potrebbero essere gli esempi riferibili ai vari conflitti cui la nostra Nazione prese parte ma fra le atrocità più efferate e, paradossalmente, rimosse dalla memoria collettiva occupano un posto di eccezione quelle compiute durante le “imprese” coloniali. La conquista del, così detto, “posto al sole” prima e dell’“Impero” poi, infatti, rappresentò per l’Italia, in stretta continuità fra liberalismo e fascismo, l’occasione per mettere in atto disumane violenze contro le popolazioni assoggettate e piegarne, così, la resistenza: basterebbe ricordare a pure titolo esemplificativo il primato storico dell’aviazione regia in fatto di bombardamenti aerei, guadagnato il primo novembre 1911, durante l’attacco alla libia ottomana, quando il tenente Giulio Gavotti lanciò dal suo velivolo Blériot quattro bombe a mano contro un accampamento militare nemico presso l’oasi di Taguira; o, ancora, l’utilizzo di gas letali contro la popolazione civile ordinato dal Maresciallo Badoglio con l’esplicito placet di Mussolini durante l’occupazione dell’Etiopia.
Proprio a quest’ultima campagna militare voluta, in violazione degli accordi internazionali, dal regime fascista per vendicare il primo tentativo di conquista dell’impero abissino conclusosi drammaticamente per gli italiani con la disfatta di Adua del 1896, fa riferimento l’episodio che ci apprestiamo a ricordare in questo articolo: il 29 maggio, infatti, cade l’anniversario della conclusione di un eccidio brutale condotto dalle truppe coloniali italiane contro gli appartenenti alla Chiesa copta di un piccolo villaggio conventuale etiope il cui nome sarebbe rimasto con ogni probabilità ignoto alla storia se non fosse stato per quello che oggi viene ricordato come il massacro di Debra Libanos.
Siamo nel 1937. La guerra, preparata e coordinata con grande impegno economico e spiegamento di forze dal regime fascista, è terminata ufficialmente da circa un anno e, come annunciato tronfiamente dal Duce, l’Italia è tornata ad essere un impero. Al di là delle dichiarazioni altisonanti chiaramente allusive alla funzione propagandistica della campagna militare, tuttavia, la situazione nel lontano Paese del corno d’Africa è tutt’altro che pacificata: quella stessa organizzazione statuale che, prima della caduta del Negus, aveva fatto dell’Etiopia un avversario certo più solido e temibile rispetto alle molte altre aree del continente nero guidate da strutture tribali e precedentemente colonizzate, la rende ora centro di una resistenza all’occupazione tutt’altro che arrendevole.
La situazione, in particolar modo, è andata aggravandosi dopo il 19 febbraio quando alcune bombe a mano vengono lanciate contro le autorità italiane e, in particolare, contro il viceré Rodolfo Graziani, intento a distribuire ai poveri di Addis Abeba dei talleri d’argento per celebrare la nascita del primogenito del principe Umberto II di Savoia. Il lancio degli ordigni, che causa sette morti ma non uccide Graziani né altri dignitari, è, infatti, motivo per un intervento militare su vasta scala: mentre la capitale viene posta sotto assedio e diviene scenario di veri e propri pogrom promossi dalle autorità in cui perdono la vita migliaia di abissini, le indagini condotte dai Carabinieri e tradotte in una relazione ufficiale dall’avvocato militare Olivieri, ricostruiscono un quadro complesso in cui l’attentato viene presentato come l’atto iniziale di un’insurrezione generale coordinata dai ministri etiopici con l’avallo dei servizi segreti britannici e l’aiuto diretto di parte del clero copto. Invero le prove sono assai fumose e ben poco credibili ma si tratta di trovare il casus per procedere ad una ampia azione repressiva che chiuda i conti con la guerriglia e “normalizzi” le aree ancora non del tutto pacificate, prima fra tutte la regione dello Scioa come espressamente ordinato da Mussolini.
Il comando delle operazioni nella suddetta regione viene affidato da Graziani al generale Pietro Maletti con delle istruzioni che non possono lasciare adito a dubbi: «Voglio precisare i miei intendimenti definitivi nei riguardi dell’ex Scioa. Lo ex Scioa nelle regioni non ancora piegate alla nostra autorità deve essere assolutamente domato e messo a ferro e fuoco. Più Vostra Signoria distruggerà nello Scioa e più acquisterà benemerenze nei riguardi pacificazione territorio impero. […]»[i]. Il Viceré, inoltre, impone come obiettivo particolare dell’intervento militare il villaggio che, sempre secondo la relazione dell’Olivieri, avrebbe fornito supporto e addestramento agli attentatori, identificati in Abraham Debotch e Mogus Asghedom: per l’appunto il villaggio conventuale di Debra Libanos. Il 6 maggio, dunque, Maletti, che già si trova in zona per adempiere i suoi “compiti”, dopo aver ricevuto l’espresso ordine di recarsi il prima possibile presso il suddetto centro spirituale fondato nel XIII secolo dal santo Tecle Haymanot, parte da Debra Brehan dando inizio ad una marcia di avvicinamento durante la quale, come da lui stesso documentato, sono incendiati 115.442 tucul, tre chiese, il convento di Gulteniè Ghedem Micael con annessa fucilazione dei suoi monaci nonché uccisi complessivamente 2523 Arbegnuoc (partigiani etiopi).
Dopo aver terrorizzato la popolazione della regione del Mens, dunque, il 19 maggio le truppe coloniali giungono a Debra Libanos. Quella stessa sera Maletti riceve un telegramma da Graziani il quale, facendo riferimento ad un rapporto compilato dal magistrato militare, maggiore Franceschini, comanda di agire senza pietà nei confronti dell’intera comunità ivi abitante: «25876 Gabinetto. Questo avvocato militare mi comunica proprio in questo momento che habet raggiunto prova assoluta correità dei monaci convento Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti monaci indistintamente, compreso vice-priore. Prego darmi assicurazione comunicandomi numero di essi. Dia pubblicità et ragioni determinati provvedimento.»[ii] Anche in questo caso, in verità, il rapporto è piuttosto vago e può essere riferito, al massimo, ad un parte dei monaci abitanti il convento ma il Viceré è ormai fermamente convinto che Debra Libanos sia abitata solo banditi ed assassini da eliminare. Come imposto dal Ministro delle Colonie Lessona e ribadito da Graziani, Maletti si adopera, dunque, per trovare un luogo isolato ove giustiziare i condannati identificandolo nella località Laga Wolde, una piana chiusa a ovest da alcuni rilievi e a est dal fiume Finche Wenz, che defluisce nel burrone Zega Wedem.
La mattina del 21 maggio, dunque, dopo alcuni accertamenti e la separazione dei religiosi dagli occasionali pellegrini, Maletti ordina di trasferire nella piana i monaci: questi, trasportati a gruppi su autocarri, vengono fucilati dagli ascari libici e somali di fede musulmana e dagli uomini di etnia Galla della banda di Mohamed Sultan (45º Battaglione coloniale musulmano). In poche ore sono giustiziati sommariamente 297 monaci e 23 laici, anche con l’utilizzo di mitragliatrici; ad essere risparmiati sono soltanto i giovani diaconi, i maestri e altro personale che vengono tradotti e trattenuti nelle chiese di Debra Brehan. Graziani avvisato dell’esecuzione, intorno alle 15:30 può comunicare trionfalmente a Roma i numeri dell’eccidio e la chiusura definitiva del convento. Ma la tragedia non è ancora terminata: dopo soli tre giorni, infatti, il viceré torna sulla sua decisione di concedere salva la vita a quanti sono stati imprigionati e, ribadendo nuovamente la certezza di correità di tutti gli occupanti del centro spirituale, ordina a Maletti di concludere la carneficina: il 29 maggio il Generale dello Scioa fa scavare diligentemente due profonde fosse in località Engecha, non lontano da Debra Brehan, dove le mitragliatrici falciano 129 diaconi, facendo salire così il numero delle vittime a 449. Quello stesso giorno Maletti invia a Graziani un telegramma con scritto “Liquidazione completa”, a prova dell’avvenuto massacro, e Graziani comunica la nuova cifra dei giustiziati a Roma.
Secondo alcuni recenti studi il computo relazionato al Duce dovrebbe essere considerato falso e il numero di quanti morirono nella repressione di Debra Libanos rivisto fortemente a rialzo. Al di là del mero aspetto statistico, ad ogni modo, quel terribile evento ci racconta una spietatezza ed una ferocia – di cui, peraltro, Graziani si dichiarò reiteratamente fiero – ben lontana dall’immagine veicolata dal motto “Italiani brava gente”. Ciò denuncia oltre ogni ragionevole dubbio quanto poco la nostra Nazione abbia fatto i conti con il proprio passato coloniale e, soprattutto, quanto ancora ci sia da dire e conoscere riguardo alle pagine più oscure del nostro passato.
Andrea Fermi
Bibliografia
Angelo del Boca, Gli italiani in Africa Orientale – 3. La caduta dell’Impero, Milano, Mondadori, 1996.
Angelo Del Boca,Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2014
Matteo Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008
Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Milano, Il Mulino, 2015
Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Udine, Gaspari Editore, 2009.
[i] Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Udine, Gaspari Editore, 2009, pp. 220-221.
[ii] Angelo del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2014, pp. 226-227.