A volte la memoria storica sopravvive in forme inaspettate, ergendo come bastioni di resistenza al sempre più facile oblio del mondo contemporaneo non già i testi o le ricerche degli studiosi bensì le strade e i muri delle nostre stesse città. Come pagine ingiallite di un vecchio libro sempre più distrattamente sfogliato questi conservano le testimonianze di fatti e persone che, sebbene raramente han lasciato traccia di sé nella grande produzione storiografica raccontano una microstoria locale non meno degna di essere ricordata: sono lapidi, targhe, piccoli monumenti, a volte semplici scritte sbiadite dal tempo o da noncuranti mani di vernice che ci rendono conto di un passato improvvisamente sottratto alla cristallizzazione spersonalizzante dei manuali, reso vivido e tangibile nei suoi luoghi di reale svolgimento. Proprio dall’incontro casuale con uno di detti monumenti è nato l’interesse per i fatti che ci apprestiamo a ricordare e di cui, come sempre per la nostra rubrica, ricorre questa settimana l’anniversario.
Chi fra i lettori abita o frequenta Roma probabilmente conoscerà il “Ponte dell’Industria” – noto anche come “Ponte di Ferro” – un ponte sul Tevere costruito negli anni ’60 del 1800 che collega i quartieri Ostiense e Portuense. Realizzato per permettere alla linea ferroviaria proveniente da Civitavecchia di raggiungere il nodo della stazione Termini, esso perse la sua funzione originale nel 1911 quando, con la costruzione della stazione di Trastevere, i treni furono dirottati sul nuovo Ponte San Paolo collocato poco più a monte. Da allora l’infrastruttura fu riadattata al traffico pedonale e automobilistico assolvendo ad una funzione essenziale nel servizio di due aeree cittadine divenute negli anni sempre più popolose. Non è, tuttavia, l’importanza urbanistica del luogo in questione a renderlo oggetto di questo articolo bensì una lapide che, procedendo da via del Porto Fluviale verso via Pacinotti, è visibile sul ciglio destro della strada appena prima di imboccare il ponte: su di essa una targa bronzea raffigura dieci volti femminili e, sotto, una scritta recita “In ricordo delle dieci donne uccise dai nazifascisti il 7 aprile 1944 S.P.Q.R. 7 – 9 – 1997”. Il riferimento, dunque, è chiaro; ma chi erano queste dieci donne e perché furono uccise?
Per conoscere la loro storia occorre tornare al buio quadro della Capitale schiacciata sotto il tallone dell’occupazione tedesca all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 fra gli Alleati ed il Governo Badoglio. Come ci si può aspettare nel più ampio contesto bellico, furono quelli lunghi mesi di paura e sofferenza, speranza e attesa ma, soprattutto, di privazioni e fame. Il problema della scarsità del cibo postosi in ogni centro urbano raggiunto dalla guerra, infatti, assunse caratteri del tutto peculiari a Roma: messa virtualmente al riparo dai bombardamenti e dalle violenze più efferate del conflitto dalla dichiarazione di “città aperta”, essa non solo non vide quell’esodo tipico dei centri minacciati dagli attacchi aerei ma, al contrario, si trasformò in rifugio per centinaia di migliaia di persone provenienti dalle campagne circostanti. Di fronte a tale situazione le strutture logistiche di approvvigionamento cittadino si dimostrarono ben presto inadatte a rifornire la Capitale di viveri sufficienti per i suoi oltre due milioni di abitanti e divennero drammaticamente deficitarie a seguito dello sbarco alleato a Nettuno nel Gennaio del ’44 ed alla conseguente interruzione dei trasporti ferroviari in gran parte dell’Italia centrale: a poco valse l’impiego quotidiano di circa cento autocarri per il rifornimento della città, spesso peraltro mitragliati dagli stessi Alleati, se l’Ufficio alimentare dell’Amministrazione militare arrivò ad ipotizzare una parziale evacuazione dello stesso centro urbano data l’evidente carenza di beni di prima necessità.
Mentre, dunque, l’inverno raggiungeva la sua fase più rigida la morsa della fame cominciava a stringersi inesorabilmente: interi quartieri, soprattutto nella parte meridionale dell’urbe, rimasero senza pane e l’intera popolazione, tanto i ricchi quanto i poveri, fu sempre più frequentemente costretta a rivolgersi al mercato nero. Pur di mettere qualcosa nello stomaco i romani presero a mangiare, quando si riuscivano a reperire, carrube lesse, pane di vegetina o bucce di patate bollite sul fuoco acceso con mobili e suppellettili. D’altra parte, soprattutto per le classi meno abbienti e per le famiglie sostenute da un reddito fisso, l’acquisto di prodotti di qualità divenne in breve tempo improponibile data la vertiginosa inflazione ed il sequestro operato dalle truppe nazifasciste delle migliori partite di generi alimentari. Il peggio, tuttavia, doveva ancora venire: la vera e propria emergenza alimentare, infatti, esplose solo dopo due provvedimenti adottati dalle autorità cittadine le quali a seguito dell’attentato di via Rasella, oltre alla rappresaglia delle Fosse Ardeatine, disposero la diminuzione della razione giornaliera di pane da 150 a 100 grammi nonché l’esclusione dai rifornimenti di tutti i civili che non avevano risposto all’appello del nuovo Governo di Salò.
All’inizio di Aprile, dunque, la situazione era ormai drammatica e la sopportazione dei romani – complice anche la dissoluzione dell’immagine della “città aperta” a seguito dei bombardamenti angloamericani avvenuti il 3 ed il 7 marzo proprio sul quartiere industriale di Ostiense e sulla nuova borgata della Garbatella – giunse al suo limite. I casi di assalti a forni o a mezzi adibiti al trasporto di generi alimentari cominciarono a moltiplicarsi tanto da costringere repubblichini e tedeschi a disporre la scorta armata di autocarri e punti di distribuzione. Le donne furono in prima fila in questa forma spontanea ed autenticamente popolare di resistenza: lo furono, solo per fare degli esempi, il 1° aprile in via Tosti quando la lunga attesa della distribuzione del pane si trasformò in occasione di tafferugli e saccheggio del forno o, ancora, il 6 dello stesso mese quando in Borgo Pio la folla bloccò un autocarro carico di generi alimentari privandolo del suo intero carico con un’irruenza tale da impedire qualsiasi reazione ai militi di scorta.
Ma fu, appunto, il 7 aprile del 1944 che, nei pressi del Ponte dell’Industria, avvenne l’episodio più significativo e tragico: quella mattina di venerdì di Pasqua decine di donne si radunarono di fronte al mulino Tesei, un esercizio che all’epoca aveva la sua sede in uno degli edifici prossimi alla riva del Tevere. Anche in quest’occasione quella rabbia che solo la fame può dare eruppe spontanea ed incontrollabile: i cancelli furono abbattuti, pane e farina saccheggiati; questa volta, tuttavia, qualcosa andò drammaticamente storto. Così rievoca l’accaduto Carla Capponi, ex-partigiana dei GAP romani e, successivamente, parlamentare:
Le donne dei quartieri Ostiense, Portuense e Garbatella avevano scoperto che il forno panificava pane bianco e aveva grossi depositi di farina. Decisero di assaltare il deposito che apparentemente non sembrava presidiato dalle truppe tedesche. Il direttore del forno, forse d’accordo con quelle disperate o per evitare danni ai macchinari, lasciò che entrassero e si impossessassero di piccoli quantitativi di pane e farina. Qualcuno invece chiamò la polizia tedesca, e molti soldati della Wehrmacht giunsero quando le donne erano ancora sul posto con il loro bottino di pane e farina. Alla vista dei soldati nazisti cercarono di fuggire, ma quelli bloccarono il ponte mentre altri si disposero sulla strada: strette tra i due blocchi, le donne si videro senza scampo e qualcuna fuggì lungo il fiume scendendo sull’argine, mentre altre lasciarono cadere a terra il loro bottino e si arresero urlando e implorando. Ne catturarono dieci, le disposero contro la ringhiera del ponte, il viso rivolto al fiume sotto di loro. Si era fatto silenzio, si udivano solo gli ordini secchi del caporale che preparava l’eccidio. Qualcuna pregava, ma non osavano voltarsi a guardare gli aguzzini, che le tennero in attesa fino a quando non riuscirono ad allontanare le altre e a far chiudere le finestre di una casetta costruita al limite del ponte. Alcuni tedeschi si posero dietro le donne, poi le abbatterono con mossa repentina “come si ammazzano le bestie al macello”: così mi avrebbe detto una compagna della Garbatella tanti anni dopo […]. Le dieci donne furono lasciate a terra tra le pagnotte abbandonate e la farina intrisa di sangue. Il ponte fu presidiato per tutto il giorno, impedendo che i cadaveri venissero rimossi; durante la notte furono trasportati all’obitorio dove avvenne la triste cerimonia del riconoscimento da parte dei parenti.[i]
Grazie alle ricerche del giornalista e storico della Resistenza Cesare De Simone si è potuto conoscere i nomi di quelle sventurate: a morire falciate dal piombo nazista in quel giorno di primavera furono Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi, Silvia Loggreolo.[ii] Il cadavere di una di loro fu rinvenuto nudo sotto il ponte[iii].
La memoria dell’eccidio è caduta nell’oblio per circa mezzo secolo: sembra infatti che una targa fu posta sul luogo dell’accaduto nell’immediato dopoguerra ma, distrutta da un atto vandalico, portò con sé anche la memoria di quella strage. Fu, quindi, solo sul finire degli anni ’90 che per interessamento della stessa Capponi, il Comune di Roma dispose la collocazione di una nuova lapide in pietra e bronzo commissionata all’artista Giuseppe Michele Crocco. Oggi al distratto automobilista immerso nelle lunghe code del traffico romano che per caso incontri il loro sguardo, quei dieci volti di donna, cinque rivolti a destra e cinque a sinistra come in un ultimo, estremo anelito di sopravvivenza, sembrano chiedere di non essere dimenticati e di ricordare il sacrificio di chi, chiedendo del semplice pane, cercava la vita ma trovò la morte.
Andrea Fermi
Bibliografia:
Carla Capponi, Cuore di donna, Il Saggiatore, Milano 2000.
Cesare De Simone, Donne senza nome, Edizioni Mursia, Milano 1998.
[i] Carla Capponi, Cuore di donna, Il Saggiatore, Milano 2000, p. 246.
[ii] A questi nomi è doveroso aggiungere quello di Caterina Martinelli, madre di sei figli, falciata il 3 maggio successivo da una raffica di mitra esplosa da un milite fascista della Polizia dell’Africa Italiana mentre rincasava con la sporta piena di pane saccheggiato da un forno della borgata di Tiburtino III.
[iii]. Così riporta la testimonianza dell’allora giovanissimo Parroco della Chiesa di San Benedetto dell’Ostiense riportata in Cesare De Simone, Donne senza nome, Edizioni Mursia, Milano 1998: «Sì, le ho viste. Ho visto quelle dieci donne. O meglio, ho visto i loro corpi. Ero in chiesa e con dei parrocchiani stavo portando via le macerie dopo un bombardamento. Di corsa, erano arrivate della donne che si erano messe a gridare che dovevo correre perché al forno Tesei, le SS avevano preso dieci donne e le stavano per fucilare. Era, lo ricordo bene, il 7 aprile. Corsi e arrivai sul ponte. Le SS mi fermarono e poi arrivò anche uno della Brigata Nera con una “M” rossa sul basco. Mi dissero che tutto era inutile perché le donne erano già state fucilate. Poi, mi portarono sotto il ponte e potei benedire quella creatura tutta nuda ammazzata sul posto»