Prima che il cinema ci mostrasse il volto della paura, erano le voci torbide e rauche della gente di paese a raccontare cosa si annidasse nell’oscurità. Storie che nascevano da fatti antichi, avvolti in una fitta coltre d’inspiegabile terrore. Racconti che scivolavano di bocca in bocca, arricchendosi di particolari macabri e diabolici.
Oggi “ascoltare” non basta più. La necessità è quella di riempirsi gli occhi di sangue, carne e ossa spezzate. Un appetito che necessità spiegazioni, conclusioni e nulla di lasciato in sospeso. Eppure qualcuno ancora sceglie di percorrere una strada vetusta, ma ricca di suggestioni.
Nel 2013 Lorenzo Bianchini firma la regia di “Across the river” (“Oltre il guado” per il mercato italiano). Un film che sceglie di spogliarsi della necessità di mostrare le sue verità più macabre, volutamente solitario e silenzioso. Bianchini si avvale di un unico personaggio, a parte una manciata di comprimari, l’etologo Marco Contrada (interpretato in maniera davvero credibile da Marco Marchese). Un uomo che si muove nella cornice suggestiva dei boschi del Friuli, monitorando la fauna locale. I filmati recuperati da una videocamera che Contrada ha utilizzato per monitorare una volpe, lo condurranno oltre il guado di un fiume, che ben presto sarà impossibile guadare nuovamente a causa di una pioggia torrenziale che ne innalzerà il livello.
Contrada si ritroverà tagliato fuori dal mondo, a girovagare tra i ruderi di un paesino abbandonato. Sotto la pioggia incalzante l’uomo verrà lentamente avvolto da un sudario fatto di finestre che nascondono oscurità sinistre, porte che cigolano e macerie che nascondono segreti persi nel tempo. Una dimensione che genera lentamente tensione, e infine terrore. Bianchini ci mostra la vera natura della paura, fatta di solitudine e accenni. Piccoli rumori che si trasformano in deflagrazioni quando si è soli al cospetto di qualcosa che tormenta la suggestione. L’assenza di dialoghi potrebbe far storcere il naso a chi è abituato ad avere la strada della narrazione ben spianata, ma per chi riesce a cogliere l’intrigante intuizioni di Bianchini riuscirà a scivolare tra le case in pietra diroccate, respirandone l’odore umido.
Ciò che si muove tra le strette vie del borgo, nelle stanze umide e mangiate dal tempo e tra i boschi circostanti è qualcosa di innaturale, figlio della superstizione. Creature nate per essere tormentate, destinate a legarsi ad un luogo per l’eternità.
Accross the river non ci porge cordialmente la soluzione al mistero che aleggia tra le pietre del paesino dimenticato, ma ci lascia la possibilità di rimuginare su quanto appreso. Bianchini ci mostra la paura nella sua forma più primordiale, generata dalla solitudine e dall’oppressione di un luogo ostile. Il vero terrore nasce da esperienze reali, come quando siamo in casa da soli e avvertiamo rumori anomali. Il sentirci osservati, genera paranoia e spalanca la porta a mostri terribili.
Across the river è un film realizzato con pochissimi mezzi, che pecca forse talvolta di eccessiva lentezza, ma capace di regalarci suggestioni davvero interessanti.
Lasciate allora da parte per una volta i titoli blasonati, che spesso sono delle delusioni cocenti, e provate ad addentrarvi nei boschi del Friuli. Guadate il fiume. Raggiungete anche voi il vecchio borgo e provate a sfidare ciò che si annida tra le pietre rose dal tempo.
Serena Aronica