12 dicembre 1969: la strage di Piazza Fontana

A volte, volgendo lo sguardo verso il nostro recente passato, il quadro della storia dell’Italia repubblicana mostra delle zone d’ombra, pagine sfocate di vicende ancor’oggi non del tutto chiarite. Sovente, riguardo tali episodi, la luce proiettata dai procedimenti susseguitisi nei tribunali e la così detta “verità giudiziaria” si mostra parziale lasciando ampli margini ad una verità storica per molti aspetti intuibile ma non documentabile. Gli interrogativi che ne derivano, o forse sarebbe meglio dire che dovrebbero derivarne, ci lasciano intravedere una realtà paurosamente priva di quei riferimenti che, nel sentire comune, distinguono il giusto dallo sbagliato, il buono dal cattivo, il tutore dall’attentatore.

Quel venerdì di metà dicembre Milano si svegliò sotto un cielo plumbeo: aveva piovuto tutta la notte e il tempo si sarebbe mantenuto incerto fino a sera. La proverbiale laboriosità della città che maggiormente aveva simboleggiato il boom degli anni ’50 e che, a ragione, veniva ormai considerata la capitale economica e finanziaria del Paese, sembrava quasi sfidare quel tempo uggioso, d’altronde aduso agli abitanti milanesi. Nella zona di piazza Fontana, in particolar modo, si prevedeva una giornata e, soprattutto, un pomeriggio, quantomai caotici: quel 12 dicembre, infatti, era giorno di mercato e la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura sita al civico n. 4 della suddetta piazza si era preparata ad accogliere coltivatori diretti e imprenditori agricoli provenienti da tutta la provincia predisponendo, peraltro, la posticipazione dell’orario di chiusura. Alle 16.30, dunque, mentre gli istituti di credito di tutta la città chiudevano i battenti, all’interno della filiale c’erano ancora diverse decine di persone: nessuno poteva immaginare che nel volgere di sette minuti il grande salone dal tetto a cupola gremito di clienti si sarebbe trasformato nel luogo di un’orribile strage. Erano le 16.37, infatti, quando un ordigno contenente 7 chilogrammi di tritolo esplose al centro della sala uccidendo sul colpo 13 persone e ferendone 91, quattro delle quali sarebbero morte a seguito delle ferite. Una seconda bomba inesplosa fu rinvenuta presso la sede della Banca Commerciale Italiana in piazza della Scala mentre altri tre ordigni deflagrarono a Roma alle 16.55, 17.20 e 17.30 rispettivamente nel sottopasso che collegava l’entrata della Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto con quella di Via di San Basilio, presso l’altare della Patria e di fronte all’ingresso del Museo del Risorgimento in Piazza Venezia provocando il ferimento di altre 16 persone.

Negli anni che avevano visto l’affermazione della contestazione studentesca prima e l’autunno caldo delle lotte operaie poi, le indagini di polizia furono indirizzate dal Prefetto Libero Mazza e dal Questore Marcello Guida di Milano verso l’area anarchica: la sera di quello stesso 12 dicembre, infatti, ben 84 elementi dei gruppi libertari e della sinistra extraparlamentare milanesi furono posti in stato di fermo. Fra di essi vi era anche Giuseppe Pinelli, detto Pino, il quale, secondo una forma quantomeno irrituale, era stato invitato dal Commissario di P.S. Luigi Calabresi a precedere la sua vettura in motorino fino alla Questura per degli accertamenti. La tragedia nella tragedia del ferroviere Pinelli ci dice molto della vicenda che qui stiamo raccontando. Trattenuto illegalmente oltre le 48 ore consentite dalla normativa in fatto di fermo, il militante anarchico cadde dalla finestra del quarto piano della Questura di Milano la sera del 15 dicembre, riportando ferite che gli sarebbero state fatali. Secondo quanto affermò il giorno successivo il Questore del capoluogo lombardo, scoperto nella sua reità e smascherato il suo alibi, “Improvvisamente il Pinelli [compì] un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si [lanciò] nel vuoto”i. Secondo le parole di Guida, dunque, si trattava del gesto supremo del reo, di colui che, tramite il suicidio, doveva essere riconosciuto come il responsabile della strage. La campagna mediatica che fin dalla sera del 12 aveva cominciato a dipingere i tratti del mostro assassino era così servita e trovava il suo soggetto ideale.

Diversamente dalla versione data dai responsabili dell’ordine pubblico, tuttavia, ben presto la pista che conduceva agli ambienti anarchici manifestò tutta la sua inconcludenza. Post mortem, l’alibi e quindi l’innocenza di Pinelli furono appurati – così come l’estraneità ai fatti di Pietro Valpreda, altro indiziato della prima ora –, ponendo quanto avvenuto la sera del 15 dicembre nei locali della Questura di Milano sotto una luce affatto diversa. Mentre quindi su questo versante si apriva una storia processuale che si sarebbe conclusa nel 1975 con la controversa e contestata sentenza del giudice D’Ambrosio secondo il quale il ferroviere anarchico cadde da solo per un “malore attivo” – senza peraltro che nessuno delle persone coinvolte (il commissario Luigi Calabresi, il responsabile dell’Ufficio Politico della Questura Antonino Allegra, quattro sottufficiali del medesimo ufficio, gli agenti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Pietro Mucilli, ed un ufficiale dei carabinieri in realtà agente del Sisdi, tenente Savino Lograno) fosse incriminata per omicidio, per abuso di ufficio sulla base dell’illegale detenzione del sospettato o per falso ideologico in riferimento alle dichiarazioni palesemente false rilasciate alla stampa –, dal punto di vista delle indagini sulla strage i sospetti si rivolsero con sempre maggiore concretezza sull’opposto versante politico, quell’estremismo nero già resosi responsabile a Milano come a Roma di numerosi atti di violenza. D’altra parte le trame che avevano condotto alla tragedia si rivelarono ben presto assai più complesse ed allarmanti di quanto si potesse immaginare: l’inchiesta giudiziaria, infatti, portò alla luce un oscuro intreccio tra forze eversive di destra e settori non secondari dei servizi segreti italiani, attivi in un’opera di depistaggio che avrebbe accompagnato costantemente il procedimento.

Aperto a Roma il 23 febbraio 1972, dopo essere stato trasferito a Milano per incompetenza territoriale il processo fu spostato a Catanzaro per motivi di ordine pubblico e legittimo sospetto. Dopo una serie di rinvii dovuti al coinvolgimento degli imputati Franco Freda e Giovanni Ventura nel 1974 e Guido Giannettini nel 1975, la Corte d’assise emise la condanna di ergastolo nei loro confronti, ritenendoli gli organizzatori della strage. La Corte d’appello, tuttavia, ribaltò la sentenza assolvendo tutti gli imputati dall’accusa principale e condannando Freda e Ventura a 15 anni per altri attentati compiuti tra l’aprile e l’agosto del ’69 a Milano e Padova. L’esito del ricorso, tuttavia, fu nuovamente contraddetto dalla Cassazione che, confermata l’assoluzione per Giannettini, ordinò un nuovo processo per gli altri imputati. Il nuovo dibattimento ebbe inizio il 13 dicembre 1984 presso la Corte d’appello di Bari e si concluse il 1º agosto 1985 con l’assoluzione di tutti gli imputati per insufficienza di prove: il 27 gennaio 1987 la Cassazione rese definitive le assoluzioni per strage, condannando soltanto alcuni esponenti dei servizi segreti italiani (il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio Labruna) per aver depistato le indagini. Un’ulteriore istruttoria avviata negli anni successivi a Catanzaro, tuttavia, chiamò in causa due altri neofascisti, Stefano delle Chiaie e Massimiliano Fachini, accusati di essere rispettivamente l’organizzatore e l’esecutore della strage: il 20 febbraio 1989 entrambi gli imputati furono assolti per non aver commesso il fatto, assoluzione poi confermata il 5 luglio 1991 al termine del processo d’appello.

Nell’ambito di una nuova inchiesta avviata negli anni ’90 dal giudice Guido Salvini furono raccolte le dichiarazioni di Martino Siciliano e Carlo Digilio, ex neofascisti di Ordine Nuovo, i quali confessarono il proprio ruolo nella preparazione dell’attentato, ribadendo le responsabilità di Freda e Ventura nonché chiamando in causa l’estremista nero Delfo Zorzi: secondo Digilio, Zorzi – ormai cittadino giapponese protetto dall’estradizione – gli aveva raccontato di aver piazzato personalmente la bomba. Il nuovo processo, avviato il 24 febbraio 2000 a Milano, sentenziò il 30 giugno dell’anno successivo la condanna all’ergastolo per Delfo Zorzi come esecutore della strage, Carlo Maria Maggi come organizzatore e Giancarlo Rognoni come basista, mentre Stefano Tringali fu condannato a tre anni per favoreggiamento; Carlo Digilio vide prescritto il suo reato grazie al riconoscimento delle attenuanti per il suo contributo alle indagini. Il 12 marzo, in appello, furono ancora una volta cancellati i tre ergastoli (e ridotta la condanna di Tringali da tre anni a uno); il 3 maggio 2005 la Cassazione confermò la sentenza (dichiarando prescritto il reato di Tringali) pur riconoscendo la colpevolezza di una cellula dell’organizzazione neofascista Ordine Nuovo capitanata da Freda e Ventura, non più processabili tuttavia per il principio del ne bis in idem. Al termine il processo nel maggio 2005 ai parenti delle vittime furono addebitate le spese processuali.

A 48 anni di distanza, dunque, la verità giudiziaria non è stata in grado di consegnare alla giustizia i responsabili di quella orrenda strage. Al di là della colpevolezza dei singoli, tuttavia, il quadro che emerge in chiave storica è chiaro e ci riporta un’Italia dalle tinte fosche in cui le pulsioni autoritarie e antiprogressiste contrapposte ai forti movimenti di rinnovamento politico e sociale attivi in quel periodo connotavano non solo l’estremismo neofascista ma anche settori importanti della classe dirigente del Paese. La così detta “Strategia della tensione” atta a diffondere paura e instabilità per giustificare l’adozione di misure liberticide da parte dei governi si rivelò drammaticamente quel 12 dicembre 1969 e dimostrò come anche all’interno dello Stato, anche fra coloro che avrebbero dovuto tutelare e difendere il bene della collettività si nascondevano criminali disposti a ricorrere ai mezzi più biechi pur di raggiungere i propri obiettivi. Oggi, soprattutto oggi, in un mondo così facilmente manipolabile dai media e dalla potenza del network questa pagina di storia italiana ci interroga da vicino imponendoci più che mai di volgerci al passato per guardare al presente e vigilare sul futuro.

Andrea Fermi

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