Ci sono argomenti il cui ricordo non appare mai sufficientemente richiamato alla mente, tragedie le cui proporzioni meriterebbero ben più spazio di quanto gliene venga riconosciuto sui comuni manuali storici o, più in generale, nella cultura di massa, soprattutto occidentale. Fra di esse, senza ombra di dubbio, vi sono le vicende legate in senso lato alla conquista del “nuovo mondo”, quelle Americhe scoperte nel 1492 e spartite nei secoli successivi fra le grandi potenze europee. Molto ci sarebbe da dire, infatti, sul vero e proprio genocidio cui furono sottoposte le popolazione indigene e sulle violenze che connotarono la conquista del continente ma la ricorrenza della settimana ci porta a concentrare la nostra attenzione su un altro drammatico aspetto di quella storia e, in particolare, sul tema della tratta degli schiavi.
Per alcuni versi può sembrare paradossale oggi, in un momento storico in cui il tema dell’immigrazione proveniente dalla sponda sud del Mediterraneo divide e suscita giudizi contrastanti, riflettere su un fenomeno che vide un numero considerevole di africani costretti dagli stessi europei ad abbandonare i loro villaggi e forzatamente condotti al di là dell’oceano per essere impiegati come schiavi nel “nuovo mondo”. In verità molto si potrebbe dedurre da un siffatto parallelismo: certo si potrebbero evidenziare, pur in un contesto affatto diverso, le tragiche somiglianze di una tratta che mantiene invariate tutte le sue disumane caratteristiche; ma, considerando le ragioni alla base dei flussi migratori odierni, l’aspetto più meritevole di un’attenta riflessione sarebbe senza dubbio lo storico e tutt’oggi profondamente radicato approccio europeo che vede nel “continente nero” una terra di risorse da depredare, siano esse forza lavoro o materie prime. La storia che qui ci apprestiamo a ricordare, dunque, non può e non deve essere vista come una vicenda cristallizzata nel tempo atta a riportarci ad un’era lontana da noi in cui gli esseri umani venivano mercificati al pari di ogni altro bene materiale; essa deve interrogarci su quanto la mentalità sottostante a siffatta barbarie, sebbene mutata, sia viva nel mondo contemporaneo e permei ancor’oggi la cultura occidentale.
Le origini della nave Zong ci riportano nell’Olanda del XVIII secolo: inizialmente battezzata Zorg – in italiano “Cura” – essa era una imbarcazione a poppa quadrata di 110 tonnellate appartenente alla Middelburgsche Commercie Compagnie. Dopo aver servito per quattro anni come nave negriera a seguito del viaggio inaugurale in Suriname nel 1777, il 10 febbraio 1781 fu catturata da un veliero britannico nell’ambito della quarta guerra anglo-olandese e dirottata verso Cape Coast Castle nell’odierno Ghana. Qui l’imbarcazione e il suo carico di 224 schiavi fu comprata dal comandante della nave inglese William per conto di una cordata di commercianti di Liverpool fra cui spiccava l’ex sindaco della città William Gregson, le cui navi, in decine di viaggi organizzati a partire dal 1747, avevano tradotto oltre 58.000 persone dall’Africa alle Americhe. La guida della Zong fu affidata all’ex chirurgo della William Luke Collingwood, uomo privo di esperienza in fatto di navigazione e comando ma avente una diretta conoscenza della tratta di schiavi: come medico di bordo, infatti, egli era stato attivamente coinvolto nella scelta degli uomini da acquistare in Africa e, di fatto, nella condanna di coloro i quali erano rifiutati, spesso uccisi sul posto. Tale dimestichezza con quelli che, probabilmente, furono omicidi di massa perpetrati ai danni degli africani non considerati “idonei” dovette avere un certo peso nella definizione di quanto avvenne successivamente sulla Zong. Primo ufficiale era James Kelsall, anch’egli proveniente dalla William, mentre l’equipaggio, composto da soli 17 uomini, comprendeva alcuni olandesi già a bordo prima della cattura inglese, altri membri della William e, infine, marinai disoccupati provenienti dagli insediamenti costieri.
Il 18 agosto 1781, dunque, la Zong, assicurata per la metà del valore suo e del suo carico, prendeva il largo da Accra seppur con un equipaggio largamente deficitario e, aspetto questo affatto rilevante, con un carico umano assai più numeroso di quello che avrebbe potuto trasportare in sicurezza: ai 224 schiavi già presenti a bordo, infatti, furono aggiunti altri 218 africani per un rapporto fra passeggeri e tonnellate di 4, laddove le navi inglesi all’epoca non superavano l’1,75. Dopo essersi rifornita di acqua a Sao Tomé il 6 settembre, l’imbarcazione avviò finalmente la sua traversata dell’Atlantico verso la Giamaica e il 19 novembre giunse a Tobago nei Caraibi ove si rifornì nuovamente di acqua potabile. Non è ben chiaro in quel momento chi fosse alla guida della nave: Collingwood, infatti, era malato da tempo mentre Kelsall era stato sospeso dal suo grado a causa di una discussione; a quanto pare a prendere il comando fu il solo passeggero a bordo, Robert Stubbs, ex governatore della fortezza inglese di Anomabu e già – diversi decenni prima – comandante di una nave negriera.
Il 27 o il 28 novembre fu avvistata la Giamaica a circa 27 miglia nautiche di distanza ma fu erroneamente identificata per la colonia francese di Santo Domingo sull’isola di Ispaniola. La Zong, dunque, proseguì la sua rotta verso ovest commettendo un errore che sarebbe stato riconosciuto come tale solo quando, ormai, la nave distava circa 300 miglia dall’isola. Ritrovandosi a circa 10 giorni di navigazione dalla meta con una scorta di acqua sufficiente per soli quattro giorni e in condizioni che avevano già ucciso diverse decine di uomini a bordo, fra l’equipaggio cominciò a farsi strada l’ipotesi di gettare a mare alcuni schiavi non solo per poter salvare quanti fossero rimasti sulla nave ma anche per una ragione ben più venale: se gli schiavi fossero morti a terra o per morte naturale in mare, infatti, gli armatori non avrebbero goduto di nessun risarcimento assicurativo mentre qualora alcuni fossero stati espulsi per salvare il resto del “carico” o la nave stessa si sarebbe potuto rivendicare il danno. Il 29 novembre l’equipaggio, riunito in assemblea discusse tale possibilità e, nonostante l’iniziale contrarietà di Kelsall da lui dichiarata in seguito, giunse in breve all’approvazione all’unanimità.
Quello stesso 29 novembre, dunque, 54 fra donne e bambini furono gettati in mare dalla finestra della cabina. Il 1° dicembre la medesima sorte toccò a 42 schiavi uomini e, nei giorni successivi altri 36 li seguirono mentre 10 ulteriori uomini, per protestare contro la brutalità dell’equipaggio, si gettarono spontaneamente in acqua. Tutto ciò avvenne nonostante a partire dal giorno d’inizio del massacro fosse piovuto abbondantemente tanto da permettere, come riportò in una dichiarazione giurata lo stesso Kelsall, l’accumulo di acqua potabile per almeno 11 giorni di navigazione a “carico” pieno. Quando il 22 dicembre la Zong giunse a Black River in Giamaica, a bordo erano rimasti 208 schiavi che furono venduti per un prezzo medio di 36 sterline l’uno.
Il caso della Zong divenne di dominio pubblico nel momento in cui gli armatori citarono in giudizio la compagnia assicurativa che si rifiutava di onorare il credito sulla base degli accadimenti riportati. Se il primo grado di giudizio riconobbe le ragioni della “cordata” di Liverpool, il successivo ricorso in appello promosso dall’assicurazione vide la giuria sostenere la non sussistenza di un reale pericolo per la sopravvivenza dell’equipaggio o del “carico”, date le appurate precipitazioni meteorologiche durante lo svolgimento del massacro. Di contro si considerava valida la posizione dei legali della compagnia assicurativa che sottolineavano l’errore nautico commesso dal Collingwood – deceduto peraltro tre giorni dopo l’arrivo in Giamaica della sua nave – e gli contestavano l’esplicita decisione di condannare a morte parte degli schiavi onde ottenere un risarcimento in grado di rendere redditizio il suo primo viaggio in qualità di comandante. In ultima analisi, dunque, si concluse che gli assicuratori non potessero essere considerati responsabili degli errori commessi dall’equipaggio della Zong.
Nonostante tale pronunciamento e gli sforzi esperiti dall’attivista anti-schiavitù Granville Sharp, nessun processo fu istruito nei confronti dei membri dell’equipaggio che pure erano esplicitamente accusati di omicidio da parte dei legali degli assicuratori. Dentro e fuori dai tribunali, d’altra parte, l’approccio alla questione dello schiavismo non differenziava in alcun modo gli uomini tradotti sulle navi negriere dalle merci comunemente trasportate: la loro espulsione dalle imbarcazioni e la conseguente condanna a morte non suscitava alcuna sensazione particolare. Ciò, tuttavia, non implicò la dissolvenza nell’oblio di quanto avvenuto sulla Zong: tale tragedia, infatti, rappresentò l’avvenimento principale su cui si basò negli anni a seguire la letteratura abolizionista la quale, nelle ultime due decadi del secolo, favorì in modo significativo la diffusione di una nuova sensibilità sull’argomento in questione.
Andrea Fermi