Il Made in Italy

Dopo una serie di rubriche tese ad analizzare tanti stilisti spesso stranieri, ho pensato di dare attenzione al fenomeno del Made in Italy o meglio di un Made in Italy sempre meno italiano.

Per quanto mi riguarda, essendo un’attenta ricercatrice di tendenze e un’acuta osservatrice del mondo che mi circonda, mi sono resa conto che spesso noi italiani siamo afflitti da un brutto male…“l’esterofilia”. Questo brutto male, accompagna noi italiani fin dall’infanzia, ci cibiamo infatti di film americani, desideriamo lo stile glamour delle rock band straniere, una vita frizzante alla Sex in the city con tanto di scarpe firmate Manolo Blahnik- tanto per citare il precedente articolo, desideriamo il fascino alla francese e così via…Insomma tendiamo a vedere l’erba del vicino sempre più verde e proviamo spesso  un sentimento ambivalente di amore-odio per la nostra terra. Di fatto però, il nostro Paese che noi tanto bistrattiamo è fonte di ricchezza per tante Holding straniere, soltanto dal 2008 al 2012 per esempio ben 437 aziende italiane sono passate nelle mani di acquirenti stranieri: questo il dato più clamoroso del Rapporto Outlet Italia -“Cronaca di un Paese in svendita presentato dall’Eurispes”, e negli ultimi anni purtroppo il dato delle aziende italiane vendute all’estero è aumentato.

Praticamente ad oggi non possiamo più parlare di un vero e proprio Made in Italy, stiamo perdendo sempre più la nostra identità (e spesso anche i poli produttivi) e a causa di questa svendita infatti, quasi  500 marchi nostrani sono ad oggi in mano a società straniere… e queste non accennano ad arrestarsi. Questo fenomeno sempre più dilagante, pone un quesito sulle conseguenze economiche, ma  sociali, in quanto siamo assistendo più o meno inconsapevolmente ad una svendita del patrimonio imprenditoriale italiano.

Il Made in Italy è sul viale del tramonto? Qui mi troverò ad analizzare ciò che sta avvenendo nel settore del fashion system, ma ormai il problema investe davvero tutti i settori. 

Il Made in Italy

Storicamente il Made in Italy si delinea negli anni ’80 in un processo di rivalutazione e difesa dell’artigianalità del prodotto italiano, al fine di contrastare la falsificazione della produzione artigianale e industriale sopratutto nei quattro settori in cui l’Italia si vede in quegli anni spiccare per eccellenza; come la moda, cibo, meccanica e arredamento.

All’estero, infatti, i prodotti italiani avevano nel tempo guadagnato fama, in quanto in esso confluivano studio, fantasia del disegno, notevoli qualità di realizzazione, cura dei dettagli e delle forme, durevolezza e per questo sinonimo di alta qualità, alta specializzazione, differenziazione ed eleganza.

Prime basi delle norme del riconoscimento del prodotto e sua provenienza avviene con l’ACCORDO DI MADRID DEL 14 APRILE 1891 recepito e ratificato in Italia con la L. n. 676 del 1967, con il quale si sanciva l’apposizione del “Made in…” che consentiva di individuare l’esatto luogo di fabbricazione di un determinato prodotto, pertanto riconducibile all’accertamento dell’origine del medesimo. Per anni  il Belpaese si è vantato e crogiolato del simbolo posto su molteplici prodotti “Made in Italy”, finché con la crisi molti imprenditori italiani si son visti costretti a svendere le loro aziende e se non hanno ceduto l’attività, sono quantomeno entrati in partnership con aziende estere, oltre che si son visti costretti a delocalizzare all’estero la produzione, con una perdita progressiva del lavoro da parte di dipendenti italiani.

Purtroppo oggi quando leggiamo marchi famosi esporre l’etichetta Made in Italy siamo proprio sicuri che stiamo comprando italiano? La risposta, nella maggior parte dei casi, è negativa.

Made in Italy addio?

La LVMH Louis Vuitton Moët Hennessy S.A. abitualmente accorciata in LVMH, è la maggiore multinazionale francese operante in tema di beni di lusso, creata nel 1987 dalla fusione di due società: Louis Vuitton, un’impresa  di moda, fondata nel 1854; e Moët Hennessy, un’azienda specializzata in vini ed alcolici nata nel 1971. L’azienda, con sede a Parigi, vanta 77.000 dipendenti ed è caratterizzata dal carattere elitario della propria produzione e distribuzione; la LVMH, infatti, vende i propri prodotti solo nei propri negozi o in alcuni negozi ben determinati come i magazzini Harrods. Alla holding si connettono circa sessanta società ognuna delle quali ha in gestione talune griffe. La LVMH include al suo interno i seguenti marchi:

  • Nel settore orologi e preziosi ne fanno parte:

Bulgari, Chaumet De Beers, Diamond Jewellers, Dior Watches, Fred Joaillier, TAG Heuer Zenith International S.A. Hublot.

  • Nel settore prodotti di moda ne fanno parte:

Dior, Louis Vuitton, Fendi, Berluti, Céline, Donna Karan, Nowness, Emilio Pucci, Givenchy, Kenzo, Loewe, Marc Jacobs, StefanoBi, Thomas Pink, Bulgari, Loro Piana, Arnys.

  • Nel settore profumi ne fanno parte:

Parfums Christian Dior, Guerlain Parfums, Givenchy, Kenzo Parfums, Acqua di Parma, BeneFit Cosmetics, Fresh Perfumes, Loewe Make Up, For Ever Laflachère.

  • Nel settore vini ed alcolici ne fanno parte:

10 Cane Rum Ardbeg, Belvedere Bodegas, Chandon, Cape Mentelle, Château d’Yquem, Cheval des Andes, Cloudy Bay, Domaine Chandon California, Domaine Chandon Australia, Glenmorangie Hennessy, Krug Mercier, Moët et Chandon (incluso Dom Pérignon), Newton Numanthia, Ruinart Terrazas de los Andes, Veuve Clicquot Wenjun.

Dunque vediamo che nel settore moda alla LVMH appartengono questi marchi italiani  (Fendi, Berluti, Bulgari, Emilio Pucci, Loro Piana…). Loro Piana, ad esempio è stata valutata 2,7 miliardi e la Lvmh ha pagato ben 2 miliardi per accaparrarsi l’80% del pacchetto aziendale. Sergio e Pier Luigi Loro Piana hanno sì mantenuto la loro posizione alla guida dell’azienda di famiglia, ma con uno striminzito 20% della proprietà.

Il Gruppo Kering-ex PPR Kering conosciuta in precedenza come  Pinault-Printemps-Redoute PPR, è una holding multinazionale francese  fondata dall’imprenditore François Pinault. Oggi Kering comprende un gruppo mondiale di marchi del lusso, divisione sport & Lifestyle e retail, distribuiti in 120 paesi. Al suo attivo in Italia: GucciBottega VenetaBrioni e Pomellato e all’estero; Balenciaga, Alexander Mc Queen, Boucheron, Stella McCartney…

Oltre alle due prestigiose holding francesi, competitiva sul mercato è la Cina, che con la riforma del 1979 di Deng Xiaoping, si è aperta al mercato divenendo in soli 40 anni la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti.

Zhu Chongyun, è la stilista e imprenditrice cinese che ha acquistato il marchio Krizia dopo aver costruito un impero della moda nel suo Paese.

Raffaella Curiel ha ceduto una parte del suo marchio di alta moda Curiel Couture a RedStone Haute Couture Group, un’azienda cinese che si occupa di moda, soprattutto europea.
La Salvatore Ferragamo è stata acquistata per l’8% dal magnate di Hong Kong Peter Woo, uno degli uomini più ricchi del mondo (197esimo nella classifica internazionale di Forbes).

Per finire, gli arabi che vantano nel loro capitale due marchi prestigiosi e altisonanti quali:  Gianfranco Ferré e Valentino.

Il Qatar ad esempio è uno tra gli Stati più ricchi del mondo grazie al petrolio e al gas naturale liquido (di cui è primo produttore su scala globale), attualmente guidato dall’emiro trentasettenne Sheikh Tamim bin Hamad al-Thani, d’Italia se n’è comprata un bel po’. Per la precisione, il fondo sovrano Qatar Investment Authority (Qia) ha investito in Italia circa 6 miliardi di dollari – su un patrimonio complessivo stimato di 335 miliardi – divisi tra i settori bancario, finanziario, dei trasporti, immobiliare, turistico e moda.

Nel 2012 Sheikha Moza, seconda moglie di Hamad bin Khalifa Al Thani emiro del Qatar, stanca di acquistare abiti di Valentino ha deciso di acquistare direttamente la Maison. L’ha fatto attraverso Mayhoola for Investment, holding di sua proprietà, per la cifra di 700 milioni di euro. Con l’acquisizione del gruppo, i precedenti azionisti (tra cui Luca e Gaetano Marzotto, al 20%) hanno ceduto il controllo di Valentino Spa e la licenza M Missoni, mentre l’altro marchio, Marlboro Classics, è rimasto al fondo Permira, ex proprietario all’80% di Valentino Fashion Group. L’acquisto si è ben presto rivelato tutt’altro che un vezzo della first lady qatariana. Valentino, dal 2012, grazie anche alla gestione dell’italiano Stefano Sassi è decollata, rivelandosi un investimento studiato e un ingresso vincente nell’industria del fashion. I ricavi sono saliti da 458 milioni nel 2012 a 1,047 miliardi a fine 2015; il risultato netto è passato da una perdita di 60 milioni nel 2012 a un utile di 75 milioni nel 2015, con tanto di distribuzione di dividendi per 30 milioni, ma non devi sorprenderci se nel gusto sopratutto degli abiti di Haute Couture spesso si scorgono quasi delle Abaya, sopravveste femminile lunga fino ai piedi di tradizione islamica declinata però in nuance e fogge più occidentali.

(Mozah bint Nasser al-Missned chiamata Sheikha Moza, seconda moglie di Hamad bin Khalifa Al Thani emiro del Qatar, vestita Valentino)

Valentino Haute Couture)

La soluzione?

A mio parere dato che nel settore industriale tanto è stato fagocitato da assorbimenti esteri, direi che l’unico modo per sopravvivere oggi è quello di valorizzare la piccola e media impresa. L’alta qualità e cura del prodotto nei suoi dettagli spesso non risiede nelle mani di chi lavora meccanicamente su volumi industriali, ma nell’animo di quelle persone che lavorano con passione e spesso vivono nei piccoli centri, nei nostri meravigliosi borghi ricchi di storia e cultura.

Penso che attualmente un grande imprenditore Italiano che definirei illuminato, sia Brunello Cucinelli, il quale in Umbria e precisamente a Solomeo , ha istituito la “Scuola dei Mestieri” con l’intento di impedire che i ragazzi lascino il nostro territorio, ma ne diventino timone e  futuro.

http://www.brunellocucinelli.com/it/solomeo-school.html

Brunello Cucinelli ha voluto a Solomeo una scuola ispirata alle idee di quei grandi visionari che furono John Ruskin e William Morris con la loro Arts and Crafts. Il suo motto è recuperare le nostre tradizioni.

Intervista Brunello Cucinelli “Made in Italy senza Italy“:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano. 
Io non mi sento italiano 
ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Giorgio Gaber

Eleonora Riccio

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