Da grandissima fan di Christopher Nolan è per me davvero difficile scrivere di un suo film, perché corro il rischio di farmi trasportare troppo ed essere poco lucida, fermo restando che un film può piacere o no. Non scrissi in occasione di Inception e neppure in occasione di Interstellar, una delle poche pellicole che considero capolavoro senza il timore di star dicendo una grande fesseria. Mi ritrovo oggi a scrivere di Dunkirk, e onestamente sono io stessa a stupirmi. Se ho avuto il coraggio di scrivere di Dunkirk c’è un solo motivo, ossia che il film non mi ha pienamente convinta, tanto da sentirmi pronta a discuterne. Ma andiamo con ordine.
La storia
La vicenda storica di Dunkirk è nota più o meno a tutti, ed è forse uno dei pochi casi in cui non si ha il timore di fare spoiler. In ogni caso vi invito a saltare questa parte della recensione se non conoscete i dettagli dell’accaduto. Francia, 1940. Sulla spiaggia di Dunkerque 400.000 soldati inglesi attendono di essere portati in salvo. A dividerli dalla patria la Manica, ad assediarli i soldati tedeschi che hanno ormai occupato la Francia. Quella di Dunkerque viene ricordata come una delle imprese più eccezionali della storia contemporanea. A salvare le truppe ingleseifurono i civili, arrivati da più porti con mezzi di ogni tipo, per riportare a casa i propri soldati.
L’intreccio tipicamente “alla Nolan”
Se c’è una cosa a cui Nolan non sa proprio rinunciare è giocare con il tempo, mischiando i piani temporali a suo gusto e piacimento, e anche un po’ per la gioia di noi spettatori. Il suo marchio di fabbrica, insomma. L’evacuazione di Dunkerque, infatti, viene raccontata su tre piani temporali, e spaziali, diversi, che neppure a dirlo, si riuniranno solo nel’epilogo. C’è la spiaggia, e una lunga settimana di paura per i soldati ammassati lì in attesa di partire o morire; c’è il mare, dove in una giornata come un’altra un gruppo di civili inglesi cambierà per sempre la storia; e c’è il cielo, dove il pilota di un caccia inglese ha poco più di un’ora e un serbatoio in avaria per abbattere il bombardiere del nemico.
Nolan fa convergere le tre storie in maniera perfetta. Riuscire a portare avanti tre campi d’azione distinti vuole dire anche puntare su un (grande) cast corale, dove, però, inevitabilmente c’è spicca più di altri, per esempio Mark Rylance (Mr. Dawson), protagonista dell’episodio del mare, o Kenneth Branagh (Comandante Bolton), tra i protagonisti dell’episodio sulla spiaggia, quello che personalmente mi ha colpita di più, anche più dello strepitoso Tom Hardy (pilota Farrier), “costretto” a recitare solo con i suoi occhi per tutta la durata del film. E c’è un motivo se il personaggio di Branagh mi ha convinto più di altri, perché è l’unico che arriva al cuore.
Perchè Dunkirk non convince
Ed eccoci alle dolenti note, perché l’ultimo film di Nolan non convince e no, non può essere considerato un capolavoro. Dunkirk non emoziona, non arriva, e quello che parte come un grandioso film di guerra finisce per essere un misto di retorica e patriottismo. Era davvero necessario? Era necessario, ad esempio, far finire così la vicenda del cielo? Era necessario buttarla sull’eroismo quando per tutto il resto della pellicola hai espresso in tutti i modi, con inquadrature, musica, parole, quanto tutto ciò sia ripugnante? No. Sono conscia che il nostro senso di patriottismo è decisamente diverso da quello che hanno gli inglesi. Eppure non riesco a passare sopra alla retorica, non se a farla è Nolan.
Perché Dunkirk merita comunque di essere visto
Il mio è un giudizio molto personale e non posso negare di essere rimasta particolarmente colpita da certe scene, soprattutto grazie ai tecnicismi a cui Nolan ci ha abituati. Dal punto di vista tecnico siamo sì davanti ad un’opera impressionante. I meriti di ciò vanno, oltre che alla sceneggiatura di Nolan, soprattutto alla fotografia di Hoyte Van Hoytema e alle musiche di Hans Zimmer, già in odore da Oscar. Più che di musica qui si parla di sonoro, e mai come questa volta Zimmer, con l’aiuto dello stesso Nolan, è riuscito a trasmettere ciò che Nolan voleva: ansia. C’è un ticchettio ossessivo fin dalla prima inquadratura, un ticchettio fastidioso, penetrante, che sale di tono seguendo il pathos del film, che disturba e quasi invita ad abbandonare la visione per la paura di vedere ciò che non si vuole vedere. Il sonoro è ciò che più di tutto, in Dunkirk, ci restituisce ciò che quella terribile settimana sulla spiaggia di Dunkerque deve aver significato per gli inglesi, smarrimento, rabbia, abbandono, morte, terrore e resilenza.
In due parole…
Se dovessi riassumere Dunkirk con due parole sarebbero queste, resilenza e ansia. Dunkirk è dunque un grande e perfetto esercizio tecnico, che pecca proprio in questo suo voler essere perfetto, ma che forse convincerà l’Academy a premiare Nolan. Ma di questo non potremmo che esserne contenti.