Negli scorsi appuntamenti con la Storia ci è già capitato di sottolineare più o meno esplicitamente come, studiando il nostro passato, solo in parte lo svolgersi dei processi che hanno interessato l’umanità possa essere spiegato tramite l’analisi delle gesta di grandi e memorabili personaggi. Tutta l’importanza che può essere attribuita a certe individualità, infatti, non deve mai far dimenticare che esse furono sempre e comunque espressione di interessi e volontà emersi dalla società, nelle cui dinamiche interne vanno indagate le ragioni profonde dei processi evolutivi della Storia. Tale considerazione, se si dimostra pertinente già nello studio dell’età antica e moderna, è divenuta ancor più pregnante con l’avvento della contemporaneità e, in particolare, della Rivoluzione francese, da quando, cioè, le moltitudini popolari hanno rivendicato un posto di primo piano nella definizione socio-politico-economica del mondo in cui viviamo. Con il 1900 e l’affermazione della così detta “società di massa”, infine, essa si è imposta come presupposto analitico imprescindibile.
Gli episodi che ci apprestiamo a ricordare rappresentano, in tal senso, un esempio emblematico e ci riportano ad una storia certamente connotata dall’emergere di importanti figure carismatiche ma avente il suo protagonista principale nei grandi movimenti popolari. Essi si inseriscono nel più ampio quadro delle lotte per i diritti della maggioranza nera in Sud Africa, lotte che erano state avviate già nella seconda decade del ‘900 e che attraversarono il paese per diversi decenni. Animate in primo luogo dal partito dell’African National Congress – di cui nel secondo dopoguerra sarebbe divenuto leader Nelson Mandela – tali proteste si connotarono inizialmente per una forte impronta pacifista di derivazione gandhiana. L’avviarsi di esperienze di lotta armata in diverse aree del mondo e, soprattutto, l’adozione sul finire degli anni ’40 di politiche apertamente segregazioniste – la così detta Apartheid – da parte del Governo sudafricano guidato dai nazionalisti bianchi Afrikaner, tuttavia, spinsero l‘ANC su posizioni via via più favorevoli ad azioni violente.
La svolta, in tal senso, avvenne agli inizi dei ’60 quando, a seguito della repressione nel sangue di alcune manifestazioni contro la Pass law – legge con la quale si stabiliva che i cittadini neri sudafricani dovessero esibire uno speciale lasciapassare se fermati dalla polizia nelle aree riservate ai bianchi –, l’ANC decise di dar vita a vere e proprie formazioni paramilitari, le Umkhonto we Sizwe (nome abbreviato con la sigla MK), con cui avviare azioni di sabotaggio. Così si espresse a riguardo lo stesso Nelson Mandela: “[…] dopo una lunga e tormentata valutazione della situazione sudafricana, io e alcuni colleghi giungemmo alla conclusione che, poiché la violenza nel paese era ormai inevitabile, sarebbe stato irrealistico e sbagliato per i leader africani continuare a predicare la pace e la non violenza in un momento in cui il governo rispondeva con la forza alle nostre richieste pacifiche.
Non fu facile giungere a questa conclusione. Fu soltanto quando ogni altra strada si era dimostrata impraticabile, quando tutti i canali di protesta pacifica ci erano stati preclusi, che venne presa la decisione di adottare forme violente di lotta politica e di costituire l’Umkhonto we Sizwe. Lo facemmo non perché desiderassimo arrivare a questo, ma soltanto perché il governo non ci aveva lasciato altra scelta”[i].
Inevitabilmente le azioni condotte dalle MK trovarono nel Governo sudafricano una risposta tutt’altro che dialogante: all’aumento di quelli che furono considerati attentati terroristici, infatti, corrispose l’inasprimento dell’azione repressiva in conseguenza della quale furono incarcerati un elevato numero di militanti dell’ANC fra i quali lo stesso Mandela, condannato nel 1962 all’ergastolo. Ciò, tuttavia, non valse a ridurre la forza delle proteste antisegregazioniste e gli stessi attacchi delle Umkhonto we Sizwe che andarono sempre più intensificandosi.
Attorno alla metà del decennio successivo, dunque, complice anche il successo di alcune organizzazioni rivoluzionarie africane quale il fronte di liberazione del Mozambico (Frelimo), il movimento sudafricano per i diritti dei neri attraversava un momento di grande vitalità. Ciò nonostante, l’approccio istituzionale nei confronti di una mobilitazione sempre più connotata da caratteristiche di massa continuava a distinguersi per l’assenza totale di aperture compromissorie. Al contrario l’azione di governo, dopo aver definito una struttura normativa fortemente discriminatoria nei confronti della cittadinanza di colore, si avviava ad adottare una serie di provvedimenti volti alla negazione ed alla conseguente assimilazione delle espressioni culturali proprie delle popolazioni autoctone. Particolarmente significativo in tal senso fu il decreto legislativo del 1 gennaio 1975, l’Afrikaans medium decree, con il quale si imponeva a tutte le scuole per neri l’Afrikaans come lingua paritetica all’inglese nello svolgimento di alcune materie. Tale idioma, di derivazione germanica ed evidentemente importata dai colonizzatori, era associata dai cittadini di colore alla figura stessa degli oppressori bianchi, aspetto questo che aveva spinto i primi ad optare per l’inglese come lingua ufficiale. La sua imposizione, accolta con ferma opposizione da parte degli insegnanti e degli alunni delle scuole per neri, non poté che dare nuovo impulso alle proteste antisegregazioniste: il 30 aprile 1976 gli allievi della Orlando West Junior School, situata nel sobborgo di Orlando a Soweto, infatti, diedero inizio ad uno sciopero rifiutandosi di recarsi presso il proprio Istituto. A questa iniziativa risposero gli alunni di varie altre scuole i quali, tramite un neoformato comitato di azione, il Soweto Students’ Representative Council, indissero una manifestazione di massa per il 16 giugno successivo.
In quella data, dunque, migliaia di studenti e docenti uscirono dai propri edifici scolastici e diedero vita ad una dimostrazione che si sarebbe dovuta concludere presso lo stadio di Orlando. Il corteo fu organizzato in modo tale che le intenzioni non-violente dei partecipanti fossero del tutto evidenti, intenzioni ben simboleggiate dai diversi cartelli che riportavano la scritta: “Non sparateci – non siamo armati”. Tale attitudine, peraltro, non vacillò neanche quando, di fronte alle vere e proprie barricate erette dalle forze armate tutt’altro che disposte ad una gestione pacifica della piazza, i manifestanti optarono per una decisione che non cedeva alla patente provocazione e stabilirono di abbandonare il previsto percorso dirigendosi alla Orlando High School. Qui, tuttavia, la Polizia, giunta sul luogo con ulteriori rinforzi, fece oggetto il corteo di un nutrito lancio di gas lacrimogeni con l’evidente intenzione di disperderlo: fu solo allora che la folla, da cui continuavano ad essere scanditi slogan contro il decreto ed il Governo, si dispose a resistere attivamente, con il lancio di pietre, alle cariche delle forze dell’ordine. Negli scontri che seguirono e che durarono fino a sera, la polizia aprì reiteratamente il fuoco sui dimostranti uccidendo, secondo le stime ufficiali, 27 persone, addirittura più di cinquecento secondo quelle della Reuters e di altri fonti ufficiose. Fra di essi trovò la morte anche il tredicenne Hector Pieterson, divenuto, complice una tragica fotografia che lo ritrae morto fra le braccia di un altro manifestante, un’icona della lotta anti-Apartheid. Oggi in Sud Africa, proprio in memoria di quei ragazzi uccisi per protestare contro un governo razzista, il 16 giugno viene festeggiata la giornata della gioventù.
I fatti di Soweto ebbero una enorme eco internazionale: le immagini e i video degli scontri, infatti, rimbalzarono su tutti i quotidiani ed i notiziari del mondo sensibilizzando l’opinione pubblica di tutto il globo sul tema dell’Apartheid. Molti cittadini bianchi sudafricani si schierarono al fianco delle ragioni dei dimostranti e contro la brutalità della polizia: studenti e, ben presto, lavoratori bianchi si unirono alle manifestazioni dei neri, facendo proprie le ragioni di una protesta sempre più diffusa. Si apriva, così, una lunga stagione di crisi politica per il partito Afrikaner che poco meno di 20 anni dopo avrebbe portato alla fine del regime segregazionista e alla salita al potere, a seguito delle prime elezioni a suffragio universale, proprio dell’African National Congress, guidato da Nelson Mandela.
Nei video che documentano la sua scarcerazione e il suo primo discorso dopo tanti anni di prigionia (1990), si è teso spesso a concentrarsi sulla figura indubbiamente carismatica e storica di Mandela stesso; a ben guardare, tuttavia, i fatti qui ricordati ci rammentano come il vero protagonista di quei filmati fu il popolo sudafricano tutto, il quale, dopo anni di lotta, salutava nella liberazione del suo leader una storica vittoria contro il razzismo.
[i] Nelson Mandela, Un ideale per cui sono pronto a morire, a cura di Roberto Merlini, Garzanti Libri, 2013.
Andrea Fermi