Il genocidio del popolo zigano e la ribellione del 16 maggio 1944 ad Auschwitz-Birkenau

L’appuntamento con la storia di questa settimana ci porta a ricordare un episodio a lungo rimasto nell’ombra e, tutt’oggi, ignoti ai più. Il suo oblio si contestualizza nel più ampio quadro di una delle pagine più buie e drammatiche del recente passato, una pagina su cui assai è stato scritto e detto ma che continua a nascondere molti lati oscuri: il fenomeno concentrazionario nazista.

     Come è noto il termine con cui viene comunemente indicata l’uccisione di milioni di persone nei campi moltiplicatisi nei territori occupati dalla Wermacht è Olocausto. Il chiaro riferimento biblico non è casuale: esso, infatti, ci rimanda all’immane sacrificio che interessò la comunità ebraica, oggetto principale di un odio razziale da secoli diffuso nel Vecchio Continente e divenuto scientifico progetto di sterminio nell’ambito del piano politico hitleriano. Eppure l’indubbia preponderanza numerica dei “figli di Israele” scomparsi nei forni crematori nazisti ha troppo spesso portato ad una non altrettanto attenta considerazione dell’alto contributo di sangue pagato anche da altri gruppi etnici, religiosi o genericamente sociali. A varcare i cancelli su cui dominava la grottesca frase “Il lavoro rende liberi”, infatti, non furono solo ebrei ma anche omosessuali, portatori di handicap, oppositori politici, testimoni di Geova, Rom e Sinti.

     Questi ultimi, in particolar modo, erano accomunati al popolo ebraico dalla storia di una discriminazione che affondava le sue radici nei secoli precedenti. Fin dal medioevo, in tutta Europa,  le tradizioni degli zingari e le relative peculiarità in fatto di usi e costumi avevano creato attorno a loro un clima di sospetto e diffidenza tradottosi presto in un approccio apertamente repressivo da parte delle istituzioni: le superstiziose e strumentali accuse di stregoneria o di essere “spie dei Turchi” andarono via via tramutandosi nella formulazione di un complesso normativo volto a condannare lo stesso stile di vita nomade con particolare riferimento ai temi dell’accattonaggio e del vagabondaggio. L’accostamento e la progressiva identificazione di tali pratiche con un modus vivendi considerato automaticamente illegale finirono per affermare lo stereotipo dello zingaro criminale recidivo e irrecuperabile, corpo estraneo ad una società civile che lo escludeva e rifiutava. In questo senso la natura propriamente culturale delle popolazioni Rom e Sinti veniva completamente disconosciuta e il problema della loro inclusione ignorato in favore di un’attitudine al più assimilatoria.

     Fu, dunque, su questo sostrato che si inserì la persecuzione nazista. Non c’è da stupirsi, d’altra parte se, in una Germania ossessionata dall’idea della “pura razza ariana”, la “questione zingara” ebbe fin dai primissimi anni del regime hitleriano un’attenzione peculiare. Ad occuparsene, in particolar modo, fu “L’Istituto di ricerca sull’igiene razziale e sulla biologia della popolazione” istituito nel 1936 e posto sotto la direzione del dott. Robert Ritter. Secondo le ricerche condotte da quest’ultimo, nell’affrontare il problema della popolazione zigana, occorreva partire dal presupposto che «non c’erano più zingari puri poiché avevano assimilato le caratteristiche peggiori delle popolazioni dei numerosi Paesi in cui avevano soggiornato nella loro secolare migrazione dall’India. Pertanto, non si potevano considerare “ariani puri” ma “ariani decaduti”, appartenenti a una “razza degenerata”»[i]; a ciò andava aggiunta poi la vera e propria minaccia rappresentata da quell’“istinto del nomadismo” riconosciuto da Ritter come appartenente al corredo genetico di Rom e Sinti e in grado di rappresentare un pericolo per l’intera società tedesca[ii]. Per quanto oggi ci possano sembrare  assurde e chiaramente prive di ogni fondamento scientifico, fu proprio sulla scorta di tali conclusioni che nel 1937 il governo tedesco riconobbe la natura geneticamente criminale delle popolazioni zigane e dispose pertanto la schedatura e l’arresto dei suoi membri.

     Iniziava così un processo che, in breve, avrebbe visto gli zingari come gli altri gruppi etnico/sociali considerati “nocivi” dapprima ghettizzati, indi deportati ed, infine, avviati alla “soluzione finale” delle camere a gas. Nei confronti delle popolazioni zigane, in particolar modo, le politiche concentrazionarie si concretizzarono già a partire dal 1939 quando, a seguito dell’annessione della Polonia, diverse migliaia di Rom e Sinti tedeschi furono richiusi nel ghetto di Łódź e nei campi di concentramento di Sobibor, Belzec, Majdanek, Treblinka ed Auschwitz-Birkenau. Con il diffondersi della guerra e, in particolare, con le vicende che interessarono l’apertura del fronte orientale e l’invasione della Russia sovietica, tuttavia, il programma di sterminio subì una netta accelerazione: se, infatti, già durante l’avanzata della Wermacht, le Einsatzgruppen si resero protagoniste di svariate fucilazioni di massa ai danni delle popolazioni nomadi, la sconfitta di Stalingrado e il capovolgersi delle sorti belliche indussero ben presto il partito nazional-socialista ad affrettare la messa in atto dei suoi piani di morte. Fu così che, nel dicembre 1942, lo stesso comandante delle SS Heinrich Himmler ordinò la totale deportazione degli zigani di tutto il Reich nel tristemente noto lager di Auschwitz-Birkenau.

     Come era già avvenuto negli altri campi e luoghi di reclusione, ad Auschwitz gli zingari erano internati in una sezione esclusivamente dedicata a loro, lo Zigeunerlager, una sorta di “campo nel campo” in cui i prigionieri vivevano isolati ed in condizioni particolari: non sottoposti a selezione iniziale o appello mattutino, essi non partecipavano al lavoro e potevano continuare a vivere in gruppi familiari; alle donne era persino concesso di partorire. Quella che potrebbe apparire come una condizione di privilegio, tuttavia, nascondeva un atroce destino di morte: in dette condizioni, infatti, gli zingari erano completamente abbandonati a se stessi con scarsissimi rifornimenti di cibo e nessuna cura medica. Ciò faceva si che nello Zigeunerlager i livelli di mortalità fossero i più alti del campo come testimoniato dall’allora medico dell’infermeria di Auschwitz Hermann Langbein. Questi, nel ricordare una visita alle loro baracche, così ebbe ad esprimersi: «Su un pagliericcio giacciono sei bambini che hanno pochi giorni di vita. Che aspetto hanno! Le membra sono secche e il ventre è gonfio. Nelle brande lí accanto ci sono le madri; occhi esausti e ardenti di febbre. Una canta piano una ninna nanna:  “A quella va meglio che a tutte, ha perso la ragione” […] L’infermiere polacco che ho conosciuto a suo tempo nel lager principale mi porta fuori dalla baracca. Al muro sul retro è annessa una baracchetta di legno che lui apre: è la stanza dei cadaveri. Ho già visto molti cadaveri nel campo di concentramento. Ma qui mi ritraggo spaventato. Una montagna di corpi alta piú di due metri. Quasi tutti bambini, neonati, adolescenti. In cima scorrazzano i topi»[iii].

     In merito alle ragioni che indussero i nazisti ad un siffatto trattamento sono state avanzate varie ipotesi tra le quali la più accreditata è che si trattasse di un progetto di sperimentazione –  analogamente al caso del lager per famiglie del ghetto di Theresienstadt – per capire cosa si potesse fare di altri gruppi considerati razzialmente simili qualora fosse continuata l’occupazione tedesca. Tale ipotesi è anche suffragata dal fatto che gli zingari di Auschwitz furono tra le principali vittime degli esperimenti medici e di sterilizzazione condotte dal famigerato dott. Mengele. Parimenti si è supposto che, in tal modo, si volesse mantenere in loro l’illusione della sopravvivenza ed evitare, così, rivolte. Anche questa considerazione non appare affatto infondata nel momento in cui si consideri che proprio gli zingari furono tra i pochi gruppi etnici a ribellarsi al loro sterminio. Il 16 maggio 1944, infatti, la decisione presa dalle autorità del campo di avviare la liquidazione dello Zigeunerlager si scontrò contro la resistenza attiva dei prigionieri ivi internati i quali, avvertiti dell’arrivo delle SS, si rifiutarono di uscire dalle loro baracche e, armatisi di pietre e bastoni, si predisposero a contrastare il loro trasferimento alle camere a gas. Di fronte a quest’atto di rivolta, non unico ma certamente raro nei campi di concentramento nazisti, gli stessi aguzzini inviati per condurre l’operazione di morte furono colti alla sprovvista e decisero di desistere dal loro intento.       Lo sterminio di Rom e Sinti rinchiusi ad Auschwitz, tuttavia, era solo rinviato: con l’approssimarsi del fronte e l’arrivo di nuovi convogli carichi di ebrei provenienti dall’Ungheria, la risoluzione del problema dello “spazio” nel lager divenne non più prorogabile. Il 2 agosto 1944 le SS tornarono a circondare in armi lo Zigeunerlager non prima, tuttavia, che fosse disposta ed effettuata la deportazione presso il campo di Buchenwald di oltre mille zigani con il chiaro obiettivo di ridurne le forze e contrastare più facilmente eventuali ulteriori atti di rivolta. Ricorda un medico ebreo: «La procedura è stata la stessa applicata per il campo ceco. Prima di tutto divieto di uscire dalle baracche. Poi le Ss e i cani poliziotto hanno cacciato gli zingari dalle baracche e li hanno fatti allineare. Hanno distribuito a ciascuno le razioni di pane e i salamini. Una razione per tre giorni. Hanno detto loro che li portavano in un altro campo […] Il blocco degli zingari sempre cosí rumoroso, s’è fatto muto e deserto. Si ode solo il fruscio dei fili spinati e porte e finestre lasciate aperte che sbattono di continuo»[iv]. I nuovi, disperati tentativi degli internati di resistere e sottrarsi al loro tragico destino non valsero questa volta a salvar loro la vita: in quel 2 agosto 1944 i quasi 3000 zigani rimasti nel campo trovarono la morte nel crematorio n. 5, il più vicino allo Zigeunerlager.    Molti dei sopravvissuti ad Auschwitz hanno ricordato quella notte con termini di profonda angoscia e tristezza dal momento che con gli zingari sparivano dal campo gli ultimi frammenti di vita rappresentata dai loro canti, le loro musiche e le voci dei loro bambini. Per documentare l’ostinatezza con cui gli zigani tentarono fino all’ultimo di difendere le loro vite, invece, la testimonianza forse più significativa fu quella dello stesso comandante del campo, Rudolph Höss il quale nel suo libro di memorie Comandante ad Auschwitz (Torino, Einaudi, 1960) ebbe a ricordare come «Non fu facile mandarli alle camere a gas. Personalmente non vi assistetti, ma Schwarzhuber mi disse che, fino ad allora, nessuna operazione di sterminio era stata così difficile»

     Si stima che durante il Porrajmos, termine zigano traducibile come “grande divoramento” o “devastazione” e che indica appunto il genocidio cui essi furono sottoposti negli anni del Reich tedesco, morirono circa 500.000 zingari. La memoria di uno dei più grandi orrori dell’umanità è doverosa anche nei confronti del loro sacrificio.

 

«Noi Rom e Sinti siamo come i fiori di questa terra.

Ci possono calpestare,

ci possono eradicare, gassare,

ci possono bruciare,

ci possono ammazzare –

ma come i fiori noi torniamo comunque sempre…»

Karl Stojca

 

[i] Giorgio Giannini, Vittime dimenticate, lo sterminio dei disabili, dei rom, degli omosessuali e dei testimoni di Geova, Viterbo, Nuovi Equilibri, 2011, pag. 34.

[ii] Cfr. ibidem

[iii] Hermann Langbein, Uomini di Auschwitz, Milano, Ugo Mursia, 1984, pp.534.

[iv] D. Kenricjk-G. Puxon, Il destino degli zingari, Milano, Rizzoli, 1975, p. 181.

 

Andrea Fermi

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