I leader Ue stregati da Roma ma l’accordo resta al ribasso

Ultimo leader a lasciare il Quirinale, il danese Lars Løkke Rasmussen, che se ne va a fare shopping in centro con un seguito ridotto al minimo.

A quel punto la domanda che agita i pensieri degli sherpa è se questo 25 marzo, giornata romana di celebrazione solenne e a tratti gioiosa, sia da considerarsi l’inizio d’una fase nuova o una pausa nella tempesta multipla che scuote l’Europa. «Mercoledì si torna alla realtà con l’avvio della Brexit – confessa una fonte diplomatica -, e nessuno può dirsi sicuro di quale sarà il colore del cielo sopra la nostra testa». Stregati da Roma, deserta come una cartolina di Audrey Hepburn, i capi di Stato e di governo Ue hanno tentato anzitutto di mantenere un’unità costruttiva. «Tutti hanno rinunciato a qualcosa», ha ammesso il presidente del Consiglio Donald Tusk, presentando l’ennesimo accordo al ribasso nel momento in cui la storia imporrebbe un salto di qualità. Mezzo bicchiere, al solito, e che funzioni davvero è presto per dirlo. Intanto, però, avanti si va.

La primavera capitolina, l’aria da Dolce Vita, hanno dato «’na mano a faje dì de sì». Era disteso venerdì sera il premier spagnolo Rajoy, a tavola da «Nino» in via Borgognona, come lo era il polacco Tusk a passeggio con la moglie in via Veneto, e Angela Merkel segnalata dalle parti di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori. I colleghi socialisti cenavano a Villa Pamphili, reduci come gli altri dall’invito in Vaticano. Poi il Campidoglio e gli Orazi e Curiazi affrescati, infine il Colle di Mattarella. Stregati dall’Urbe, invitati a distendersi. Persino Viktor Orbán, accolto freddamente dai colleghi per la sua sindrome di costruttore di muri e riscrittore di leggi costituzionali, ha sostato sugli scalini dei Musei Capitolini ammettendo che, in effetti, «It looks good»: il massimo dell’entusiasmo per il duro premier ungherese.

La cerimonia nella sala degli Orazi e Curiazi è stata sobria, del resto quella del 1957 fu di «disadorna semplicità», almeno nelle parole dello speaker del cinegiornale. Sulla dichiarazione finale non c’erano dubbi, il testo era chiuso da lunedì e non si intendeva toccarlo. Per motivi diversi, ma uniti dalla voglia di mandare segnali all’elettorato di casa, hanno cercato di riaprirlo polacchi e greci. Pro forma. Beata Szydło, in un giallo tanto luminoso da confondersi con la bandiera belga, voleva garanzie sulle più velocità, perché in fondo, oltre le proteste demagogiche, alberga a Varsavia la paura di essere lasciata indietro. Alexis Tsipras, senza cravatta, inseguiva garanzie economiche che già venerdì aveva ottenuto, salvo spacciarle per «richiesta di chiaro riferimento sociale».

Non bisogna illudersi che sessant’anni fa l’atmosfera fosse tanto diversa, i Trattati furono firmati con qualche passaggio in bianco. «Siamo nella stessa sala solo un po’ più stretti», ha concesso Paolo Gentiloni, ospite apprezzato, titolare di una macchina organizzativa caduta solo – per quanto se ne sa – sul wifi della sala stampa maledetto dai giornalisti e assolutamente compatibile col 25° posto che l’Italia copre nella classifica delle potenze digitali. Al premier e ai suoi va il merito di aver battagliato perché la dichiarazione avesse un’anima sociale, parlasse di lavoro e crescita. La chiedeva Tsipras, ma soprattutto i cittadini. Adesso c’è l’impegno di tutti.

Gli Stati si riflettono nei governi, i governi nei premier, i premier nella loro camminata. Sono sfilati tutti sulla guida rossa verso il Marc’Aurelio, davanti ai messi capitolini in livrea sino alla postazione dove Gentiloni, Tusk e il maltese Muscat sono rimasti in piedi per 55 minuti. Andatura da cavaliere per Rajoy, un pugile lo slovacco Fico, atletico l’olandese Rutte, severa Angela Merkel. Tutti di ottimo umore, per la foto di famiglia e l’incontro con Virginia Raggi che si parava sulla porta. «Sindaca o sindaco?», le ha chiesto il lussemburghese Bettel, ex primo cittadino e avvocato, rapido nel dire «abbiamo così tante cose in comune». Poi la tedesca. «Ci stringiamo la mano?», suggerisce a Virginia. Rapido scambio e la leader federale è già da Giorgio Napolitano, salutato con affetto.

Era saporito il risotto di Mattarella è così, dicono, il pesce. Il Presidente invoca una Costituente, mentre il menu a Ventisette promette Brexit, crisi greca, la sfida di Le Pen, il consenso che affoga nel disincanto, la voglia delle due velocità che Tusk, classe 1957 come i Trattati, tira in ballo per descrivere la Danzica di Hitler e Stalin. L’Europa che si è rifatta l’umore ammirando i Fori giura di sentirsi in corsa, nonostante gli anni. Hollande concede che «ci sono dei problemi, ma insieme siamo più forti». Andrebbe ascoltato come invito a fare di più. Lui, in effetti, ha fallito nonostante i ventisette compagni di viaggio.

fonte: LASTAMPA.it

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