Il cibo attira gli sciacalli fuori dalle ombre. La fame ne arpiona le viscere e ne acutizza l’istinto di sopravvivenza e i loro occhi si fanno voraci nella notte e privi di scrupoli morali.
Nightcrawler (Lo sciacallo), pellicola d’esordio alla regia dello sceneggiatore Dan Gilroy, è una creatura notturna, cruda e solitaria. Una ferita che squarcia le strade desolate della città, aprendo prospettive pericolose ma accattivanti.
In questo scenario desolato e marginale, che striscia nella sua impossibilità di evolversi si aggira Lou. Viso scavato, corpo smagrito e occhi affamati. Un ladruncolo di ferraglie, arrivato da chi sa quale buco, ma animato da una fame primitiva, che lo trascina verso ambizioni più alte.
Jake Gyllenhaal incarna l’inquieta anima di Lou, figlio di una crisi economica che affama gli strati più bassi della società. Quella dove languono le spoglie di sogni, desideri e prospettive future. Si cuce addosso l’abissale appetito di emergere e lo fa attraverso i lineamenti fibrosi e tesi del viso, gli occhi ansiosi di assaggiare la conoscenza e un sorriso incrollabile che sembra una ferita buia.
La scalata verso un successo, a tratti difficile da intravedere, lo porta a scollarsi di dosso, come una pelle di serpente, la sua cognizione di giusto e sbagliato. La dialettica tagliente, subdola e arrivista si fonde con l’appetito insaziabile di ottenere quello che forse gli è stato sempre negato, trasformandolo in una crescente pretesa da rendere efficace come una mano stretta intorno alla gola.
Scendere nei piani bassi della coscienza umana è rischioso e ci induce a spiare anche dentro noi stessi, chiedendoci se quella fame da sciacallo si annida, forse, anche in un angolo remoto della nostra anima.
Serena Aronica