L’utopia settecentesca di un Museo universale (e il consistente apporto italiano)

Guido Reni, La Fortuna con una corona in mano (1637 ca, olio su tela, Roma, Accademia Nazionale di San Luca, photo credits: accademiasanluca.eu)

Che l’arte italiana, nel panorama delle manifestazioni artistiche della cultura occidentale abbia un ruolo di primo piano è una realtà assodata. Ad essa si guarda come ispiratrice di modelli stilistici e compositivi ed ha sempre suscitato brame di possesso da parte di collezionisti che, a volte, sono stati pronti a compiere furti e inganni pur di aggiungere preziose opere alla propria raccolta.

La restituzione delle diciassette opere trafugate dal Museo di Castelvecchio poco più di un anno fa ne è la testimonianza più recente e ci ha fatto tirare un sospiro di sollievo non privo di qualche sussulto per i lunghi mesi di stallo in terra ucraina. Questa apprensione non è stata così esagerata: purtroppo la storia ci ha insegnato che anche disponendo delle migliori doti diplomatiche, spesso si presentano delle lungaggini burocratiche e politiche che non permettono di risolvere in tempi brevi la restituzione di quello che è stato sottratto. E la storia dei tesori del museo veronese sembrava stesse prendendo una fastidiosa piega imprevista, volta a trovare qualche escamotage per trattenere le opere così chiaramente trafugate su commissione di qualche facoltoso collezionista.

Questa faccenda porta alla mente un’altra (più consistente e celebre) depredazione, quella svoltasi in epoca napoleonica, che si risolse in una parziale ma importante restituzione, attualmente celebrata in una mostra ospitata nelle sale delle Scuderie del Quirinale. Sembrerebbe una coincidenza, ma l’occasione che ha portato a lavorare per questa esposizione è il bicentenario del ritorno in Italia di circa metà delle opere requisite dai francesi come bottino di guerra durante le campagne italiche. Si parla di un prelievo di 506 dipinti su tela e tavola e un importante numero di sculture, tra le quali i grandi capolavori classici provenienti dalle collezioni pontificie come la Venere Capitolina, l’Apollo del Belvedere (indicato da Winckelmann come il modello di bellezza ideale) e il gruppo del Laocoonte. Proprio quest’ultimo riportò un rilevante danneggiamento sul torso della figura del gran sacerdote durante il viaggio di ritorno, quando, attraversando il passo del Moncenisio, cadde la cassa che trasportava il gruppo marmoreo.

Venere Capitolina, copia romana di un originale greco del II secolo a. C.

Di confische di beni artistici come bottino di guerra è piena la storia dell’arte, ma nella fattispecie di questo esproprio richiesto da Napoleone ha una connotazione particolare: per la prima volta nella storia moderna, l’arte veniva percepita come un valore civile, che doveva essere accessibile a tutti. Per questo, tra i propositi della Rivoluzione francese si voleva creare nelle sale del Palazzo del Louvre un museo che raccogliesse i migliori esemplari dell’arte occidentale disposti in ordine cronologico. Un’idea interessante che affondava le radici in quella cultura illuminista che puntava, tra le altre cose, ad un sapere enciclopedico, che era stato possibile attuare solo attraverso i metodi poco ortodossi adoperati durante la Rivoluzione francese e negli anni del Direttorio, consistenti in spoliazioni anche dei beni appartenenti alla Chiesa. Nel caso italiano, queste spoliazioni furono estorte attraverso la firma del Trattato di Tolentino del 1797, con la quale il papa Pio IV doveva accettar di pagare la sconfitta con la requisizione di opere d’arte.

Raffaello Sanzio, Ritratto di Leone X con i cardinal Giulio de’Medici e Luigi de’Rossi (1518, olio su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi, photo credits: articolo21.org)

Oltre alla statuaria classica, per il Louvre si pensò di trasferire quasi tutte le opere di Raffaello, diverse tele di Tiziano, Correggio, e gli artisti della cerchia dei Carracci, come Guido Reni, che portavano avanti un’ideale di classicismo al quale ispirarsi.

Negli anni in cui Napoleone soggiogò buona parte dell’Europa era a capo della Commissione degli esperti di quello che al tempo si chiamava Musée Napoleon Dominique Vivant, barone di Denon (al quale è intitolata un’ala del museo), una figura fondamentale per la riscoperta e riabilitazione dell’arte precedente ai tre grandi maestri del Rinascimento, Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Partì personalmente nel 1811 per scovare dipinti di quella che definiva “l’infanzia dell’arte italiana”, permettendo così di rivalutare l’operato di artisti del Trecento e del Quattrocento come Taddeo Gaddi e Benozzo Gozzoli.

Tullio Lombardo, lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli (1525, marmo, Ravenna, Museo dell’arte della città di Ravenna, photo credits: romadaleggere.it)

C’è da dire che non tutte le opere confiscate furono esposte a Parigi, ma furono anche ospitate in cittadine più piccole o trattenute come personale bottino di guerra da alcuni militari (come si pensa sia accaduto con il presunto Caravaggio rinvenuto a Tolosa.

Quando l’impero costruito da Napoleone si dissolse con la sconfitta di Waterloo, papa Pio VII nel 1815 scelse di inviare come delegato per trattare la restituzione dei capolavori sottratti Antonio Canova, che godeva di ottima reputazione presso tutte le corti europee e che si dimostrò all’altezza del ruolo affidato. Non poté riportare in patria tutto ciò che era stato sottratto, ma la sua missione fu accolta comunque come un grande successo. Una volta riportate in Italia, diverse città organizzarono delle mostre per far ammirare nuovamente i beni restituiti. Per un senso di orgoglio nazionalistico, anche la gente comune entrò per la prima volta nei musei.

Arte come veicolo di un senso di appartenenza a un ideale di patria unita che ancora non c’era, ma per la quale pochi anni dopo si votarono anima e corpo migliaia di italiani (perché così si sentivano, pur non essendolo di fatto).

Ci fu un ulteriore risvolto, legato al destino di tutte quelle opere che provenivano da edifici religiosi o da conventi soppressi con il Trattato di Tolentino: ci si interrogò su quale fosse il modo migliore per renderle fruibili e si decise di imboccare la strada delle pinacoteche che raccogliessero nuclei di arte regionale ordinati cronologicamente. Così nacquero importanti musei, quali la Pinacoteca di Bologna, la Galleria dell’Accademia di Venezia, si ampliò la preesistente Pinacoteca di Brera e si istituì la Galleria Nazionale dell’Umbria.

Antonio Allegri detto Correggio, Compianto sul Cristo morto (1524-25, olio su tela, Parma, Galleria Nazionale, photo credits: artslife.com)

Questa mostra espone un’ottantina delle opere riportate in patria da Canova. E lo stesso scultore scolpì pochi anni prima del delicato incarico diplomatico una Venere Italica, quasi a compensare in parte ciò che i francesi avevano sottratto e a rimarcare che anche gli artisti contemporanei potevano eseguire opere che si ispiravano a modelli precedenti e li eguagliavano in bellezza.

Antonio Canova, Venere Italica (1809-11, gesso, Possano, Fondazione Canova, photo credits: artslife.com

“Il Museo universale. Dal sogno di Napoleone a Canova”, Roma, Scuderie del Quirinale, 16 dicembre 2016 – 12 marzo 2017

https://www.scuderiequirinale.it/categorie/la-mostra-il-museo-universale

 

Pamela D’Andrea

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