È una mattina come tante. Mi alzo di fretta perché come al solito sono in ritardo per un appuntamento di lavoro, mi preparo al volo un caffè, raccatto di corsa tutto l’occorrente per la giornata ed esco di casa. Una volta in macchina prendo il cellulare per avvisare chi di dovere del mio ritardo e tra i messaggi e le mille chiamate perse, mi balza agli occhi l’SMS di un mio amico che in quel momento se la sta godendo in vacanza a Cuba, alla faccia di chi come me è rimasto in Italia al freddo e al gelo. Leggo il messaggio svogliata, convinta di vedere le solite foto di acqua cristallina e spiagge bianche, che mi faranno rimpiangere di non essere partita con loro. Vedo invece la foto di un quotidiano con su scritto un necrologio in spagnolo ed il seguente titolo: “¡Siempre Fidel!”. In un primo momento non realizzo e pensierosa accendo la radio. L’aggiornamento mattutino delle notizie mi conferma purtroppo ciò che il mio amico mi aveva tristemente preannunciato: Fidel una delle icone storiche del XX secolo, che nel bene o nel male ha segnato un’epoca, muore a 90 anni in un triste giorno di novembre.
Con lui finisce il sogno di una generazione (forse anche più di una) della sinistra italiana e mondiale che guardava a L’Avana come se fosse la terra promessa e al mito di Fidel come “padre di tutte le rivoluzioni”. Ricordo ancora quando poco più che adolescente leggevo sui libri di storia di Cuba e del suo riscatto dalla dominazione estera realizzato grazie a un gruppo di Barbudos, poco più che ventenni, che si riappropriavano della loro terra dopo anni di colonizzazione straniera, in nome dell’Indipendenza e dell’autogoverno, mentre io, che più o meno avevo la loro stessa età, ancora non avevo scoperto cosa ci fosse al di là del cortile di casa.
Certo sono passati molti anni dal 1° gennaio del 1959 quando la Dittatura di Batista fu rovesciata, ed ormai l’utopia ha lasciato il posto ad una realtà purtroppo amara, che porta ad analizzare il risultato della rivoluzione non più in base al sentimentalismo sfrenato, ma attraverso una visione oggettiva di ciò che realmente è stato.
In preda alla smania di capire, inizio a sfogliare i vari giornali trovati sul tavolo di un bar, alla ricerca di informazioni che possano confermare o smentire il mio stereotipo di Cuba, per capire se realmente è la “Utopialand” che tutti abbiamo sognato, o se c’è altro dietro quella parvenza di giustizia terrena. Secondo quanto riportano i principali organismi internazionali, Cuba continua ad essere il paese che ascende maggiormente tra quelli dell’America Latina, soprattutto dal punto di vista delle politiche sociali, grazie ai valori raggiunti nelle sfere della salute e dell’educazione, perché in queste materie l’Isola è all’altezza di quelli con il più alto sviluppo e riflette la portata delle politiche pubbliche applicate nel periodo rivoluzionario. Cuba è infatti universalmente rinomata per il suo sistema di protezione sociale e i suoi eccezionali risultati nei campi dell’educazione, della salute, della scienza, della cultura e dello sport. Dando la priorità alle classi meno abbienti del paese, Fidel Castro ha creato la società più egualitaria del continente latinoamericano e del Terzo Mondo. Le cifre sono eloquenti. Per quanto riguarda l’educazione, il tasso di analfabetismo in America Latina è dell’11,7% e a Cuba dello 0,2%. Il tasso di scolarizzazione nell’istruzione primaria (fino agli 11 anni) è del 92% nel continente latinoamericano e del 100% nell’isola caraibica. Il tasso di scolarizzazione nell’istruzione secondaria (fino ai 14 anni) è del 52% in America Latina e del 99,7% a Cuba. Circa il 76% dei bambini latinoamericani raggiungono il livello del liceo e questa cifra è del 100% per gli alunni cubani.[1] Anche l’Europa, tramite Il Consiglio Economico e Sociale dell’Unione Europea, riconosce che queste cifre sono eccezionali per un paese considerato “in via di sviluppo”.
Per quanto riguarda invece i diritti civili, Cuba rivela la sua identità più cupa, quella di un regime non democratico, nel quale tutti hanno un lavoro ma nessuno può fare carriera, tutti hanno una casa ma pochi la possiedono[2], tutti hanno almeno un tozzo di pane ma se ne vuoi di più non puoi comprarlo perché non ti bastano i soldi. Anche il passaggio di poteri non ha apportato significative modifiche alla struttura del regime. Raul è succeduto a Fidel ma la mancanza di democrazia è sempre un dato reale. È reale l’arretratezza su importanti tematiche come le limitazioni alla libertà di espressione, di associazione e di riunione (è tristemente famoso a Cuba il caso dei cosiddetti “prigionieri di coscienza” [3]).
Girare per il Paese è come fare un viaggio nel tempo, nell’America degli anni ‘50, con le donne che vanno ancora a spasso con i bigodini “fai da te”, fatti con materiali di fortuna trovati per casa. Nelle farmacie, “orgoglio della nazione”, si rivivono antichi scenari, con arredi d’altri tempi che conservano intatto la magia ed il fascino del passato. E poi, dalla porte semi chiuse delle case, si scorgono gli schermi dei televisori tutti accesi sullo stesso canale. L’uso del cellulare è stato autorizzato solo nel 2008, in seguito alla riforma elettronica favorita da Raul Castro che ha abolito il proibizionismo sui telefonini, il cui utilizzo è oggi legale, ma che nessuno usa perché essendoci solo un operatore costa troppo. Il problema del lavoro a Cuba non esiste: su una popolazione complessiva di 11,2 milioni di persone, lo stato impiega il 95% della forza lavoro ufficiale e il tasso di disoccupazione è uno dei più bassi dell’America Latina[4], anche se il dato ignora le migliaia di cubani che si rifiutano di svolgere lavori statali perché pagati troppo poco (all’incirca 20 dollari al mese). Accanto ai contadini che ogni giorno vendono parte del loro prodotto allo Stato, unico compratore, e che tagliano le erbacce ancora con l’ascia, c’è il turismo, una grande risorsa economica del paese, che però fa bene solo a chi maneggia la moneta commerciale. Nell’Isola è in vigore il doppio regime monetario che genera un’enorme economia sommersa, nera e parallela: da una parte ci sono i CUC, le banconote per i turisti che valgono come l’euro, e dall’altra i pesos, monete locali che invece non valgono (quasi) niente.
Ed è proprio nel turismo che risiede il futuro di Cuba, soprattutto quello nord americano, in seguito allo storico disgelo diplomatico voluto dal presidente americano Barack Obama, che ha come diretta conseguenza l’allentamento delle restrizioni di viaggio nei confronti dei cubano-statunitensi, l’apertura dei voli diretti da molte città Usa e la rimodulazione delle rotte di compagnie di crociere statunitensi che hanno potuto offrire scali sull’isola. Non a caso quest’operazione diplomatica ha prodotto in un solo anno un incremento del turismo americano del 50%. È diventato inoltre più facile spedire soldi sull’isola grazie alla fine di certi divieti bancari ed è stato ripristinato il servizio postale diretto. L’ambasciata americana, dopo 54 anni, torna a sventolare la sua bandiera a L’Avana. Bandiera che però rimane alzata anche durante i giorni di lutto nazionale, segno che il processo di riavvicinamento tra i due paesi è ancora incerto e che con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca si potrebbe tornare ad un clima da guerra fredda.
Nel corso dei prossimi mesi vedremo quindi l’evolversi dei rapporti tra queste due nazioni storiche rivali, con l’auspicio che il solco tracciato da Obama e Raul non venga del tutto cancellato dall’avanzata del populismo negli Stati Uniti e che Cuba, ormai priva di interlocutori provenienti dal ciclo progressista in America Latina, possa trovare un appoggio europeo in sede ONU per la revoca del bloqueo nordamericano. E per Fidel, nel bene o nel male, que la tierra te sea leve!
Maria Giovanna Bono