Si sta svolgendo in queste ore negli Stati Uniti la convention democratica che designerà ufficialmente Hillary Clinton come candidata del partito per le prossime elezioni presidenziali dell’8 novembre.
Come è lecito aspettarsi in occasioni di questo tipo, molte sono state le polemiche che hanno accompagnato l’evento, a cominciare dagli ultimi scandali su alcune mail inviate dallo staff vicino alla Clinton per boicottare lo sfidante alle primarie, Bernie Sanders, o altre nelle quali lei stessa utilizzava il proprio account personale per ricevere e inviare informazioni segretissime quando era Segretario di Stato. Ci sono poi le accuse, forse un po’ più “serie”, se così vogliamo definirle, in merito all’appoggio e ai finanziamenti alla Clinton da parte dei poteri forti di Wall Street, multinazionali e quant’altro, appartenenti al “sistema” e quindi con i quali non si può in nessun modo giungere ad un accordo.
Critiche alla Clinton che giovano sicuramente al suo competitor per la corsa alla Casa Bianca, Donald Trump, come testimoniano anche le recenti dichiarazioni di alcuni personaggi autorevoli, ad esempio Michael Moore che ha predetto apertamente la vittoria del milionario repubblicano, o quella del sondaggista che non ne sbaglia mai una, Nate Silver, che da qualche settimana ha pubblicato su FiveThirtyEight, blog di cui è direttore, il “2016 General election forecast”. Sorvoliamo invece la storia del fratellastro di Obama che voterà Donald Trump in quanto convinto che farà gli interessi di tutti gli americani e quindi anche il proprio.
Ora, per quante accuse si possano muovere alla Clinton, da come usa la propria mail a quali finanziamenti abbia ricevuto, sicuramente il male peggiore non può che essere il repubblicano Donald Trump. Soltanto per citare alcune sue dichiarazioni, ha promesso che se vincerà uscirà dalla NATO, dal WTO, caccerà tutti i musulmani dagli Stati Uniti, chiuderà internet in alcune aree per impedire ai terroristi di fare proseliti, ignorerà il riscaldamento globale in quanto è un fenomeno inventato dai cinesi e attuerà una guerra commerciale nei confronti del resto del mondo adottando misure fortemente protezionistiche.
Ma come siamo arrivati fin qui? Gli ultimi due mandati presidenziali sono stati vinti dal liberal Barack Obama, che nonostante abbia forse un po’ deluso l’aspettativa di cambiamento radicale che promise durante la prima campagna elettorale del 2008, è riuscito comunque ad imporre alcune riforme importanti come la sanità per tutti (Obamacare), i diritti agli omosessuali ed ha invertito l’interventismo in politica estera, ritirando buona parte del contingente americano dall’Iraq e dall’Afghanistan.
L’elezione di Obama, ricordato anche come primo presidente nero e già per questo rivoluzionario, è stata sicuramente favorita dall’era Bush che dal 2000 al 2008 ha segnato la storia degli Stati Uniti e del mondo con guerre indiscriminate scaturite da pretesti inesistenti (contro Saddam ad esempio, accusato senza prove di favorire i terroristi) e conclusasi con la crisi del 2008 durante la quale ha fatto giusto in tempo a salvare alcune banche e a lasciare la matassa al suo successore, prima di eclissarsi definitivamente.
Ma come hanno fatto gli americani a votare Bush? Semplice, in realtà il legittimo vincitore nel 2000 era il vice di Bill Clinton, Al Gore. Persona di tutt’altro spessore, progressista e riformista, molto sensibile alle tematiche ambientaliste ed alla “azienda Terra” più in generale. Si può affermare senza timore di smentita che se avesse vinto le elezioni che legalmente gli spettavano il mondo sarebbe adesso un posto leggermente migliore.
Ciò che interruppe il normale corso degli eventi fu lo scandalo “Florida 2000” avvenuto proprio durante le presidenziali di inizio millennio:
“George W. Bush è diventato il 43mo presidente degli Stati Uniti grazie ai 537 voti in più rispetto ad Al Gore ottenuti in Florida nelle elezioni del 2000 (con il candidato dei Verdi, Ralph Nader, che raccolse oltre 97 mila preferenze). Ciò consentì a Bush di guadagnare i 25 grandi elettori che allora assegnava lo Stato (quest’anno sono 27). Ma passarono 36 giorni di ricorsi e controricorsi legali prima che la Corte suprema degli Stati Uniti l’11 dicembre 2000, con il risicato margine di 5 voti a favore e 4 contro, ordinò di bloccare il riconteggio manuale in tutte le contee della Florida assegnando così la Casa Bianca al candidato repubblicano. La decisione di Gore, che non trovò sostegno in tutto il Partito democratico, di non proseguire la lotta legale, permise a Bush di aggiudicarsi la Florida con un vantaggio dello 0,00009% e diventare il quarto in tutta la storia degli Stati Uniti a essere proclamato presidente avendo ricevuto in assoluto meno voti dell’avversario. Gore globalmente ebbe infatti 539.947 voti in più di Bush, ma il meccanismo dei grandi elettori assegnò a Bush 271 voti e a Gore 267 (poi una sua grande elettrice del Distretto di Columbia, al momento dell’elezione effettiva del presidente, votò scheda bianca per protestare contro il fatto che la città di Washington non è ancora diventata il 51mo Stato degli Usa)” (fonte: corriere.it).
Se si interpreta quell’errore e quella decisione come uno strappo alla linea storica che da secoli costantemente cresce e progredisce verso una direzione sempre più “elevata” di qualità della vita, ripartire da dove si è interrotta può essere un buon modo per chiudere una parentesi che probabilmente non sarebbe dovuta esserci e ricominciare da quanto di buono era stato fatto nelle due amministrazioni Clinton degli anni ’90. Periodo nel quale il diritto internazionale aveva ancora un valore, dove abbiamo assistito a piccole rivoluzioni ben riuscite, come quella della new economy e conclusosi non con una crisi, ma con la più alta percentuale di occupati nella storia degli Stati Uniti.
L’unico modo, per ovvi motivi di vicinanza ideologica, è l’eventuale elezione di Hillary Clinton a novembre che potrebbe riavviare il percorso iniziato dal marito, la cui interruzione ha portato al caos nel quale viviamo, tra crisi economica e terrorismo internazionale scaturito da inutili “guerre preventive” e dal quale difficilmente con delle risposte populiste e retrograde riusciremo ad uscire. Gli Stati Uniti negli ultimi quindici anni invece che andare su Marte sono andati in Medio Oriente. La prima nazione al mondo potrebbe tornare ad essere una guida non soltanto da un punto di vista economico o militare, ma anche di valori, racchiuso nel motto proprio di Bill Clinton durante la sua presidenza: “Non dobbiamo essere l’esempio della nostra forza, ma la forza del nostro esempio”.
Filippo Piccini