Bentornati nella nostra rubrica d’arte. Si inaugura oggi a Roma la mostra “Correggio e Parmigianino. Arte a Parma nel Cinquecento”. Un doveroso tributo ad una pagina della storia dell’arte che spesso non emerge con la dovuta importanza. Un percorso che non vuole proporsi esclusivamente come un confronto serrato tra due grandi artisti del Cinquecento, ma intende far presente che Parma, pur attraversando agli inizi del Cinquecento un periodo politicamente piuttosto movimentato, assunse un ruolo di rilievo in campo artistico: le innovative soluzioni sviluppate da Antonio Allegri detto il Correggio (dal nome della sua città natale, 1489-1534) e Francesco Mazzola, noto come il Parmigianino (1503-1540) ispirarono le nuove generazioni di artisti al punto da far scuola. Ma l’influenza verso questi nuovi, raffinati linguaggi fu colta già dai loro contemporanei, testimoniata in mostra dalle opere di quattro talentuosi collaboratori nelle grandi imprese decorative delle chiese di San Giovanni Evangelista, del Duomo e di Santa Maria della Steccata. Parliamo di Michelangelo Anselmi, Girolamo Mazzola Bedoli (imparentato con il Parmigianino), Francesco Maria Rondani e Giorgio Gandini del Grano.
E se negli stessi anni si guardava, secondo le indicazioni promosse da Giorgio Vasari, all’ineguagliabile arte di Raffaello e Michelangelo, l’influenza dei due artisti emiliani si rivelò soprattutto un secolo dopo, quando l’espediente dello “sfondato” correggesco venne usato frequentemente in epoca barocca per decorare cupole e soffitti di edifici sacri e palazzi nobiliari.
Anche Correggio, di cui conosciamo parzialmente la sua formazione, aveva guardato, ammirato e recettivo, all’arte raffaellesca, soprattutto a quella proposta nella loggia romana della Farnesina e nella Stanza della Segnatura, come se lì avesse trovato la realizzazione ottimale di quella sensazione di ariosità da conferire ad un ambiente chiuso e che il suo principale maestro, Andrea Mantegna, aveva realizzato con risultati a suo avviso migliorabili nella Camera degli Sposi a Mantova (https://virgoletteblog.it/2015/04/11/appunti-darte-3/).

Antonio Allegri detto il Correggio, Madonna Barrymore (1508-10 ca., olio su tela, Washington, National Gallery of Art)
Ma a questi risultati il Correggio arrivò solo dopo un lungo lavoro sul proprio stile, inizialmente molto debitore al grande maestro veneto (basti tenere a mente la Madonna Barrymore in mostra), ma che poi si arricchì delle suggestioni carpite dall’arte di Giorgione per quanto riguarda la calda luce che invade le sue scene e da Leonardo, dal quale desunse la tecnica dello sfumato (che tramite delicate velature rendeva i contorni di figure e architetture meno netti, con passaggi tonali e luministici che riuscivano a restituire l’impressione dell’atmosfera) e la capacità di creare una corrispondenza di sguardi fra le figure, sfruttando le diagonali compositive.
Il suo grande talento però esplose con il trasferimento a Parma nel 1519, quando la badessa del Monastero di San Paolo gli commissionò la decorazione del suo alloggio. La particolarità della volta ad ombrello venne risolta con la creazione di un finto pergolato aperto con degli oculi, uno per ogni spicchio, dai quali si intravedono numerosi putti sorpresi nei loro giochi infantili. Si era giunti ad un nuovo traguardo nell’illusionismo pittorico, che presto venne replicato dal più giovane Parmigianino nella Stanza della Stufetta della Rocca Sanvitale a Fontanellato (1524).

Antonio Allegri detto il Correggio, Camera della Badessa, particolare della volta (1519-20, affresco, Parma, Monastero di San Paolo)
I due artisti lavorarono insieme anche per la decorazione della chiesa di San Giovanni Evangelista assieme ad altri giovani artisti locali che guardarono ad entrambi per lo sviluppo della propria arte. Correggio, più anziano di almeno dieci anni rispetto ai suoi collaboratori, offrì loro un importante lezione realizzando nella cupola la meravigliosa Visione di San Giovanni a Patmos, dove all’atterrito evangelista appare il consesso apostolico disposto a cerchio tra le nuvole e, ancora più in alto, Cristo che fluttua nella luce divina. La sensazione è quella che la cupola non esista e che si possa assistere alla stessa visione del santo, una vera e propria epifania, replicata in maniera più monumentale dall’analoga soluzione richiesta per la cupola del duomo parmense, dove la protagonista, questa volta, è la Madonna assunta in cielo, accolta da una schiera di angeli disposti in un turbine e pronta a raggiungere suo Figlio rappresentato in un arditissimo scorcio al centro della volta.
Ma se in queste opere l’intento del Correggio era di superare i limiti spaziali e creare stupore, la sua produzione, sia in ambito religioso che mitologico, puntava ad offrire una partecipazione emotiva per la sua bravura nel riuscire a rendere gestualità e sguardi tra i personaggi raffigurati. E per questo Correggio è indicato come colui che, meglio di altri, riuscì a comprendere e fare propria la lezione di Leonardo da Vinci. In più, con il ciclo degli “Amori di Giove”, rimasto incompiuto per la sua dipartita, seppe restituire una sensualità nelle pose e nelle espressioni che si ritroveranno solo due secoli dopo. Purtroppo l’opera che a mio avviso maggiormente restituisce questa sensazione, Giove e Io non è in mostra (di questo ciclo è invece presente la Danae) ma vale la pena ricordarla. Nella grande nuvola scura che si accinge ad avvolgere la ninfa Io, si intravede il volto di Giove che la bacia delicatamente, facendo cadere qualsiasi reticenza all’amplesso che sta per consumarsi.

Antonio Allegri detto il Correggio, Giove e Io (1532-33, olio su tela, Vienna, Kunsthistorisches Museum)
La ricerca artistica di Parmigianino invece si rivolse presto verso la grafica e l’ottica. Instancabile disegnatore, è ritenuto il primo artista italiano a cimentarsi con la tecnica dell’acquaforte, a lui congeniale perché gli permetteva di avere un chiaroscuro più morbido e, se non soddisfatto del risultato, poter correggere la lastra e il conseguente disegno. Questa tecnica permise anche una maggior circolazione dei suoi disegni, con conseguente diffusione del suo stile, elegante ed eccentrico, anch’esso foriero di una ricerca su nuovi modi in cui proporre la figura umana. C’è, in molte delle sue rappresentazioni, una strisciante sensazione di instabilità, forse suggerita dalla tendenza ad allungare le figure.
Proveniente da una famiglia di pittori di modesto valore, è considerato un enfant prodige, per aver eseguito le sue prime importanti commissioni, una coppia di pale per la chiesa di San Pietro a Bardi appena diciassettenne. In quella sopravvissuta, con uno stile ancora un po’ acerbo, troviamo fisionomie che troveremo in altre sue opere, come anche il soggetto, lo Sposalizio mistico di Santa Caterina.

Francesco Mazzola detto il Parmigianino, Pala di Bardi (1521, tempera su tavola, Bardi, chiesa di Santa Maria delle Grazie)
Pur trovando molto interessanti molti espedienti compositivi proposti da Correggio, capì presto che il suo interesse per una linea maggiormente fluida e serpentinata si discostava dal naturalismo del suo maestro. Cercò ulteriori ispirazioni andando per tre anni a Roma, dove frequentò gli allievi di Raffaello, al quale spesso fu accostato. Ma guardò con attenzione alle torsioni, a volte innaturali, delle figure maschili proposte da Michelangelo nella Cappella Sistina. Lasciò Roma dopo il Sacco del 1527, accolto come pittore di fama a Bologna. Ma qui, anche se non mancarono le commissioni, non trovò gli stimoli che avrebbero potuto far avanzare la propria arte e dargli il giusto lustro, facendogli decidere di tornare a Parma dove lo attendeva la decorazione per la chiesa di Santa Maria della Steccata, che però non completò mai per sua inadempienza, probabilmente perché la sua passione per le pratiche alchemiche lo assorbivano quasi completamente.
Anche se incalzato dai fabbricieri della Steccata per la realizzazione della decorazione, riuscì a produrre nell’ultimo decennio della sua vita le sue opere più famose, tra le quali spiccano i ritratti, eseguiti dal vero o di figure idealizzate. Gli sguardi fissi e penetranti, l’attenzione verso dettagli raffinatissimi, ma anche la scelta di anteporre aspetti psicologici a scapito di una corretta resa naturalistica, creano delle figure che sembrano apparizioni, come nella bellissima Antea, dove la misteriosa figura, riccamente abbigliata, risulta sproporzionata nella resa delle spalle e del braccio sul quale si poggia la pesante pelliccia di martora.

Francesco Mazzola detto il Parmigianino, Antea (1535, olio su tela, Napoli, Museo di Capodimonte)
La morte per una malattia improvvisa, forse la malaria, spense il suo genio prematuramente, a soli trentasette anni.
Non è possibile capire chiaramente quale tipo di impatto possa aver avuto l’innovazione spaziale dello “sfondato” senza poter anche solo virtualmente vedere l’effetto che quegli affreschi facevano negli ambienti che li ospitano. Questo primo video è un tributo valido sull’opera di Correggio:
Mentre questo secondo video mostra nei dettagli la lezione appresa dal Parmigianino quando si occupò della decorazione della Stanza della Stufetta nella Rocca Sanvitale a Fontanellato:
Come di consueto, lascio i riferimenti per la visita alla mostra:
Correggio e Parmigianino. Arte a Parma nel Cinquecento, Roma, Scuderie del Quirinale, 12 marzo – 26 giugno 2016
https://www.scuderiequirinale.it/categorie/mostra-correggio-e-parmigianino
Pamela D’Andrea