Obbedienza: la difesa di Norimberga del nostro cervello

L’idea che persone insospettabili possano, in particolari circostanze, compiere atti di dubbia moralità o, peggio, collaborare ad atrocità ed efferatezze spaventa ognuno di noi. Di fronte a tale eventualità è naturale pensare “io non lo farei mai”, non vogliamo e non possiamo credere di far parte della banalità del male, come direbbe la Arendt nel suo famoso libro.

Eppure quando ci fermiamo a razionalizzare riflettendo sull’animo delle persone che in un modo o nell’altro hanno preso parte a certe violenze storiche o che proprio in questo momento contribuiscono ai lati oscuri della nostra attualità non possiamo escludere il pensiero “e mica saranno/saranno stati tutti psicopatici maniaci”, come direi io al bar sotto casa.

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La famosa difesa di Norimberga, ossia l’aver “solo” ubbidito agli ordini, non solo non giustifica legalmente certi orrori ma ci può sembrare un maldestro tentativo di sfuggire alle proprie responsabilità ed evitarne le conseguenze. Di questo avviso era probabilmente anche Stanley Milgram, lo psicologo statunitense che durante i primi anni ’60 condusse i famosi obedience experiments, pietre miliari degli studi di psicologia sociale.

I discussi esperimenti consistevano nel dare istruzioni a persone comuni, americani medi ambosessi, affinché infliggessero scosse elettriche di intensità crescente ad un estraneo chiuso in una stanza adiacente. L’estraneo, ovviamente, era un attore che fingeva solamente di provare dolore. Nonostante le preghiere della vittima perché la tortura cessasse, il 65 per cento dei soggetti portava a termine il proprio compito, obbedendo ai comandi impartiti dall’uomo in camice che con modi autorevoli e persuasivi raccomandava loro di non interrompere l’esperimento. Solo il 35 per cento dei soggetti si rifiutava di proseguire.

Mentre Milgram, con l’aiuto dei suoi studenti, svolgeva studi sulla determinazione del comportamento individuale in un (fittizio) sistema gerarchico e autoritario, dall’altra parte del mondo, a Gerusalemme, era in atto il processo ad Adolf Eichmann, il gerarca nazista il cui aspetto anonimo e sommesso colpì la scrittrice tedesca de “La banalità del male”.

L’associazione è immediata, Milgram cercava di trovare delle risposte per capire proprio come agissero dinamiche come quelle oggetto del processo.

Il male può esser perpetrato da persone “normali”, non interessate da fanatismo o sociopatia, che si nascondono dietro ad un ordine ricevuto. Piuttosto agghiacciante.

Queste conclusioni hanno generato molti oppositori alle teorie di Milgram, probabilmente anche terrorizzati dalla mostruosa eventualità che certe dinamiche non siano state determinate da un particolare periodo storico ma che siano insite nella nostra natura. Natura da non intendersi in modo letterale, bensì come prodotto delle moderne società alienanti che tendono a renderci protagonisti passivi in un contesto enormemente più grande di noi.

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Un decennio dopo, il drammatico epilogo dell’esperimento carcerario di Stanford del 1971, capitanato dal prof. Zimbardo, fu interpretato come una naturale conseguenza dell’assenza di autonomia comportamentale dettata dall’identificazione dell’individuo con l’autorità. L’esperimento consisteva nel ricreare una prigione fittizia in cui parte degli studenti interpretava il gruppo dei secondini, gli altri i carcerati. Dopo soli 6 giorni dovettero porre fine alla finzione perché i comportamenti tenuti dagli studenti-secondini sfociarono in un crescendo di brutalità.

Il ruolo di autorità interpretato dai secondini prevedeva l’adeguamento alle norme e consuetudini dell’istituzione rappresentata, ossia “se faccio parte delle guardie mi comporto come una guardia, tanto, quello che faccio io è quello che fa il gruppo, non ho percezione delle mie azioni come individuo ma come facente parte dei secondini”.

Fra i tanti sommersi, cito il famoso caso degli abusi sui prigionieri del carcere di Abu Ghraib, studiato da alcuni psicologi dell’Università di Princeton i quali sostennero che persone comuni possono compiere atti di estrema crudeltà spinti da fattori come lo stress dovuto alla guerra, le aspettative dei superiori e le pressioni dei compagni. Lo stesso Zimbardo fu chiamato come esperto per giudicare le immagini che fecero il giro del mondo, egli ne attribuì la causa al “sistema esercito”.

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Questa tendenza ad obbedire all’autorità, o al ruolo che la società impone, sembra che non sia indotta unicamente dal bisogno di conformismo, o meglio, non dal conformismo “senza se e senza ma”. Gli studi di cui abbiamo parlato sono stati rivisitati in più occasioni (ricordiamo che sono basi della psicologia sociale) e alcuni ricercatori sostengono che gli atti che si compiono in date circostanze sono dovuti non tanto a cieca obbedienza (o cieco conformismo) ma alla convinzione, seppur indotta, che quelle azioni siano giuste.

Gli esecutori si identificherebbero, quindi, attivamente con coloro che propongono determinate pratiche considerandole giuste, o “positive”, e le metterebbero in atto con convinzione, cercando nel contempo l’approvazione da parte di tale autorità. I risultati sarebbero giustificati solo da un reale convincimento dei soggetti partecipanti.

Più di recente un team di neuroscienziati e psicologi dell’University College di Londra e dell’Universitè libre di Bruxelles ha riesaminato gli studi di Milgram ed ha ripreso l’esperimento della scossa mirando, però, ad approfondire cosa avviene nel soggetto ubbidiente, cercando eventuali meccanismi che portano alla de-responsabilizzazione nei confronti dell’azione perpetrata.

L’esperimento, pubblicato su Current Biology, ha valutato la percezione di responsabilità del soggetto agente in base ad una tecnica che ha il tempo come unità di misura del coinvolgimento nell’azione; più tempo crediamo sia passato fra il nostro gesto e la conseguenza, meno responsabilità percepiamo nei confronti dell’accaduto. I risultati mostrano che la responsabilità per le azioni guidate dall’ubbidienza è inferiore a quella percepita per le azioni considerate volontarie. Il soggetto, inoltre, nell’atto dell’obbedire mostra un’attività cerebrale minore nelle aree del cervello che valutano il rapporto causa-effetto.

Mi viene da pensare che possa trattarsi di un qualche meccanismo di difesa, come se la nostra parte più umana e naturale non voglia rassegnarsi al fatto che stiamo compiendo un atto crudele e cerchi di allontanarlo da se il più possibile o forse, più semplicemente, nonostante gli studi e gli esempi sotto gli occhi di tutti, sono fra quelli che “non potrei mai farlo” punto e basta.

Infatti ricordiamo che, anche nell’esperimento di Milgram, c’è un 35 per cento di persone che si rifiutano di proseguire, indicazione che, per fortuna, non tutti sono disposti a certe azioni per conformarsi.

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Quelli che ubbidiscono sono per lo più la copia perfetta di quelli che comandano. (Robert Walser)

 

Serena Piccardi

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