Il film di cui ci occupiamo questa settimana, presentato lo scorso anno al Torino Film Festival, ha rappresentato un piccolo caso cinematografico nel capoluogo piemontese. Uscito nelle sale a fine agosto, è rimasto in programmazione, contro ogni previsione per ben sette settimane, riscuotendo notevole consenso da parte di un pubblico, che ha visto e ritrovato nella storia di Franco, Delfino e Carlo un po’ del nostro passato e molto del nostro oscuro futuro.
Il film si apre con un filmato dell’Istituto Luce, che mostra nel 1939 un entusiasta Benito Mussolini, inaugurare la Fiat Mirafiori, definita la più grande fabbrica del mondo. Sono passati molti anni da quel memorabile giorno, pieno di speranza e orgoglio nazionale, dove la fabbrica non rappresentava per l’operaio semplicemente il posto di lavoro, ma attraverso essa, riusciva a definire la propria identità e realizzare i suoi desideri, qualunque fossero. Ecco perchè i nostri tre, non più giovanissimi protagonisti (interpretati dagli ineccepibili Alessandro Haber, Antonio Catania, Giorgio Colangeli) liquidati troppo in fretta da una società che non li riconosce, non accettano la chiusura della Mirafiori nel più totale abbandono.
Inseguendo un fiabesco ideale, fatto di sogni e tenera incoscienza, si battono perchè in quello spazio vuoto, non cali definitivamente il sipario, ma possa tornare a pulsare la vita, quella vera fatta di fatica, lotta, ma anche soddisfazione e gioco. E proprio per questo, immaginano che la Mirafiori, possa diventare un bellissimo luna park, pieno di luci e colori, quasi a voler rievocare un viale del tramonto che non includa la parola fine.
Stefano Di Polito, regista del film, che abbiamo avuto il piacere d’intervistare e di cui lasciamo il video, che abbiamo girato in occasione del tour civico organizzato in quattro serate a Roma, per la promozione del film, ha dichiarato che c’è più di un elemento autobiografico nella storia. Figlio di emigranti e operai, ha vissuto in prima persona la storia della Mirafiori e di tutto ciò che ha rappresentato.
In quest’era di globalizzazione, caratterizzata dalla spersonalizzazione dell’individuo, dove di lavoro se ne trova sempre meno, e quello che si trova più che nobilitare, deabilita moralmente, il regista vuole che certi simboli, che hanno fatto grande la nostra povera Italia non vadano definitivamente perduti. E noi non possiamo che essere d’accordo con lui, proprio perchè questa storia dal sapore zavattiniano, a differenza di tante pellicole dai super budget, comunica un’urgenza e una necessità da cui ripartire per provare a cambiare le cose.
Molto interessante in questo senso, i vari filmati d’epoca, delle lotte operaie e della vita di fabbrica, che alternano la storia filmata. Immagini, che mostrano persone vere, animate da valori e sentimenti, davvero un abisso con i vari “personaggi”, che popolano e determinano la nostra vita quotidiana.
Laura Pozzi