Web reputation

Sul web tutto resta, indelebile, nei risultati delle ricerche su Google, nei commenti, su Facebook, nei blog. Accade sempre più frequentemente che una Società di Selezione del personale si preoccupi di andare a controllare il profilo di un candidato su Facebook, su Linkedin, su Twitter.

Si tratta di controlli a volte anche  approfonditi,  fermo restando il fatto che non sempre ciò che si trova sul web corrisponde automaticamente a verità.

Tutto ciò che viene postato su internet lascia una traccia indelebile sulla reputazione online di ognuno, che inevitabilmente si ripercuote su quella reale.

Il web è uno dei canali che misura la nostra presenza. (veritiera o meno)

Può avere anche risvolti negativi a volte. La web reputation è fondamentale sia a livello personale che professionale. Attraverso le opinioni di utenti direttamente interessati oppure tenendo conto dei così detti opinion leader o la stampa stessa. Questo riguarda sia i privati che le aziende. L’importante è far inserire il maggior numero di opinioni positive, crearsi un blog nel quale ci si racconta, così da ridurre al minimo le opinioni negative.  Si può altresì intervenire chiedendo recensioni e opinioni ai clienti o agli amici se si tratta di privato.

Le aziende farmaceutiche lo fanno da tempo, segnalo un libro del 2014 “Digital Pr e web putation”. Basta porre la massima attenzione. Come sosteneva U. Eco internet può essere informazione, ma anche rumore.

Nell’epoca veloce di internet, Google è il moderno oracolo da interrogare prima di agire, e la reputazione è diventata la nuova moneta globale.

Prima di un colloquio di lavoro; prima di scegliere un prodotto, un albergo, un ristorante; prima di investire in azioni di questa o quella società; per valutare un candidato politico, un avvocato, un commercialista, tutti vanno alla ricerca del nome in questione su Google.

Avere una buona reputazione online può migliorare molte situazioni, ma se la reputazione è pessima,  semplicemente avere un omonimo sbagliato, può renderci la vita un inferno.

Per  avere una buona reputazione on line, molti utenti si comportano non più come sarebbe nella loro natura, ma nel modo in cui vogliono essere considerati, orientando l’identità verso il proprio ideale.

Un fortissimo condizionamento autoimposto che secondo gli anglosassoni, può portare a migliorare se stessi.

Secondo esperti del settori sarà solo una questione di tempo (10-15 anni) ma poi si arriverà addirittura alla definizione di un punteggio che verrà utilizzato per valutare la nostra reputazione virtuale, quella che costruiamo ogni giorno frequentando le Rete.

Le possibilità offerte dalle tecnologie, la relazione sempre più stretta tra uomo e macchina e la sorveglianza diffusa hanno aumentato in modo esponenziale le potenzialità di erosione della nostra privacy e quindi della nostra libertà.

Non possiamo rinunciare, in nome del progresso tecnologico alla tutela dei diritti e dei principi su cui si fonda la nostra società (dignità della persona, ovvero riservatezza, reputazione, identità)

I dati utilizzati per scopi illeciti sono in generale reperiti con facilità nel contesto della rete, delle infinite applicazioni che giornalmente utilizziamo e gli utenti fanno ben poco per proteggersi in modo adeguato.

Il furto di identità ad esempio, nella sua più ampia accezione corrispondente alla sottrazione ed utilizzo di dati personali è fenomeno ancora estremamente sottovalutato, anche se nel solo settore del credito ha ormai assunto dimensioni rilevanti, con significativi impatti economici e sociali, con perdite stimante in 170 milioni di euro all’anno (secondo una recente indagine di Crif).

Emerge una situazione di grandissima fragilità, che riguarda ogni tipo di organizzazione indipendentemente dall’ambito e dalla dimensione, sia nel settore privato che pubblico.

A proposito di sicurezza digitale, una nuova raccomandazione dell’OCSE, sottolinea che le minacce sempre più sofisticate e crescenti possono mettere in pericolo la sicurezza delle informazioni e compromettere la prosperità economica e sociale.

E’ importante ricordare la sentenza sul Safe Harbour, dello scorso 6 ottobre 2015.

Ha stabilito che l’accordo del 2000 fra Unione Europea e Stati Uniti, detto di approdo sicuro, non è affatto sicuro, poiché non garantisce che i dati trasferiti dall’Europa verso gli Stati Uniti siano tutelati adeguatamente, ed ha riaffermato il potere/dovere delle autorità nazionali di protezione dati e di esercitare le azioni di misure sicure.

Quindi è bene prestare la massima attenzione quando si commenta on line, senza per questo privarsi della libertà.

Sabrina Mattia 

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