Ci troviamo a Suruc, una cittadina tra Siria e Turchia a un passo da Kobane, simbolo della resistenza curda alle milizie dell’ISIS. All’interno del centro culturale curdo Amara è in corso una conferenza di giovani volontari socialisti, che discutono sulla ricostruzione della città strappata al califfato nel gennaio scorso. Sono quasi le ore 12 del 21 Luglio quando Seyh Abdurrahman Alagoz, giovane kamikaze, si fa esplodere mentre i giovani sono in giardino per esporre il piano d’aiuto. L’esplosione uccide 32 di loro e lascia sulla strada centinaia di feriti.
Perché colpire Suruc? La città ospita moltissimi profughi fuggiti dalle aree controllate dall’ ISIS ed è base di partenza di militanti curdi, decisi a battersi contro gli estremisti islamici.
Perché attaccare i curdi Turchi? Hanno cercato con continuità di contrastare l’avanzata del califfato, sostenendo i curdi siriani e irakeni e fornendo aiuto militare.
Lo scontro con i turchi negli ultimi trent’anni ha causato oltre 40.000 vittime curde, fino a quando nel 2013 Abdullah Ocalan, leader de PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) a oggi incarcerato, non ha annunciato una tregua. Dopo essere divenuto dagli anni Ottanta vessillo della creazione di uno Stato curdo autonomo si è quindi giunti al cessate il fuoco, ma il PKK è tutt’oggi dichiarato fuorilegge.
Le fazioni curde in Turchia hanno tentato per molto tempo di spronare il governo affinché si impegnasse con fermezza per contrastare l’avanzata dello Stato Islamico, ma gli scarsi controlli al confine con la Siria hanno favorito il passaggio di foreign fighters, armi e denaro che per quattro anni ha rafforzato la posizione dell’ISIS. Il Paese avrebbe anche permesso ai militanti di armarsi e addestrarsi sul suo territorio e impedito invece la partenza a molti curdi, così come l’ingresso ai disperati in fuga. A maggio le forze armate statunitensi hanno inoltre scoperto il coinvolgimento di alcuni funzionari turchi nel traffico illegale, che riforniva la Turchia di reliquie e petrolio estratto dai pozzi dell’ISIS, garantendogli sostegno economico.
Si arriva ad accusare il presidente turco Recep Tayyip Erdogan di voler favorire lo Stato Islamico, sperando così di indebolire le fazioni curde nel Paese e tenere sotto controllo spinose questioni nazionali.
La tragedia di Suruc ha portato il governo Turco a mobilitarsi. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) è stato bollato dal PKK e da parte dell’opinione pubblica come ideatore della strage e il suo leader Erdogan, insieme all’intelligence, sarebbe quindi da considerarsi alla stregua degli uomini di Al Baghdadi. Musulmano sunnita conservatore, giudicato colpevole per incitamento all’odio religioso e incarcerato nel 1998, l’attuale Presidente fonda tre anni più tardi il AKP, che se da una parte cerca di darsi l’aspetto di partito di centro-destra sulla scia di quelli cristiano democratici europei, dall’altra viene aspramente accusato dall’opposizione di islamismo e anti-laicismo.
Il governo turco ha ora concesso agli statunitensi l’uso della base aerea di Incirlik, per bombardare lo Stato islamico. Una fascia di 60 miglia appartenente alla Siria diviene così, senza attendere l’autorizzazione de Consiglio di Sicurezza dell’ONU, zona cuscinetto utile agli USA. La NATO ha riconosciuto alla Turchia il diritto alla difesa appoggiando i raid aerei contro l’ISIS e ha riconfermato al contempo l’ostilità nei confronti del PKK, autorizzando azioni violente ai suoi danni con un “uso proporzionato della forza”, sollecitando in modo blando e contraddittorio la riappacificazione turca con i curdi.
Per la prima volta quindi nella notte del 24 luglio la Turchia attaccava obiettivi dello Stato islamico. Il giorno seguente gli F-16 turchi bombardavano tre postazioni del PKK nella provincia di Sirnak, infrangendo la tregua e mettendo il punto a una fragilissima pace.
Una “lotta sincronizzata contro il terrore”, a detta del Presidente, fatta prioritariamente di attacchi ai danni del PKK piuttosto che dell’ISIS, che hanno ulteriormente alimentato il sospetto di un’apparente guerra contro Al Baghdadi, asservita a ben altri scopi. Si susseguono numerosissimi anche gli arresti di presunti jihadisti sul territorio turco, ma a ben vedere ancora una volta oggetto principale dell’accanimento governativo sono soprattutto i curdi e i militanti di sinistra. Intanto la Farnesina lancia l’allarme per rischio attentati e, tra azioni rivendicate e presunte, la frangia più estrema del PKK risponde alla strage di Suruc e agli attacchi subiti con violente ritorsioni ai danni dell’esercito turco.
I soldati di Erdogan hanno bombardato anche aree sotto il controllo dal PYD (Partito dell’unione democratica), l’alleato siriano del PKK. Nonostante il presidente neghi le sue responsabilità anche le milizie curde siriane dell‘YPJ (Unità di protezione popolare), sostenute dagli USA, accusano la Turchia di aver aperto il fuoco su alcune sue postazioni vicino Kobane. Queste fazioni curde, che hanno avuto un ruolo strategico nell’ostacolare l’ISIS in Siria, sono anch’esse invise ad Ankara per via dei legami con il PKK.
Erdogan incita poi il Parlamento a togliere l’immunità ai parlamentari del partito filo-curdo di opposizione HDP (Partito Democratico dei Popoli), accusandolo di favoreggiare i terroristi, in quanto ingloberebbe anche movimenti collegati al PKK. Il confronto politico pare non essere propriamente il punto di forza di Erdogan: la procura di Istanbul ha appena scoperto che la notizia su un presunto complotto, diffusa dai giornali filogovernativi Aksam e Gunes, era un falso ideato ai danni dell’ideologo islamico Fethullah Gulen. La pubblicazione di presunte conversazioni e tweet aveva lo scopo di screditare due avvocati dell’opposizione e un giornalista indipendente, presunti artefici del piano.
La chiave di lettura va ricercata in una situazione politica interna delicata e complessa: nelle elezioni di giugno, per la prima volta dopo tredici anni, il partito di Erdogan ha perso la maggioranza assoluta e cerca di cucire un governo instabile e rinsaldare la sua leadership. La ricerca del sostegno dell’estrema destra ultranazionalista è considerata una delle ragioni del proliferare degli attacchi a danno dei curdi. La perdita di consensi ha avuto infatti come contraltare proprio l’affermarsi della coalizione dell’HDP.
Il suo leader, Selahattin Demirtas, ha prontamente risposto alle accuse del presidente che l’unica colpa del suo partito, per la prima volta rappresentato in Parlamento dopo aver superato l’alta soglia di sbarramento, è quel 13% registrato alle ultime elezioni e che la lotta contro l’ISIS è solo di facciata. Lo stesso governo, nel parlare di lotta al terrorismo, non opera una distinzione tra miliziani jihadisti e PKK, nonostante siano ideologicamente agli antipodi e soprattutto nonostante il determinante ruolo dei curdi siriani e iracheni, sostenuti dai curdi turchi, nella lotta ai miliziani di Al Baghdadi. Altro elemento rilevante: il regime siriano sciita di Bashar al Assad è il principale nemico del governo turco e l’ISIS lo combatte da oltre due anni: così le buone notizie sul fronte dell’indebolimento dello Stato Islamico diventano cattive notizie per il leader turco, poiché rafforzano Assad, i curdi e le loro rivendicazioni politiche e territoriali.
La battaglia politica turca ha nuovamente come palcoscenico i nuovi media: il social network Twitter ha avuto da Ankara quattro ore di tempo per oscurare le immagini dell’attentato di Suruc, cercando frettolosamente di non spandere benzina sul fuoco dei ribelli curdi e di quegli ambienti internazionali che accusano la Turchia di doppiogiochismo. L’ostilità del Presidente nei confronti dei nuovi mezzi di comunicazione non è una novità: “Le immagini nei social network sono pericolosi per la società”, affermava nel 2003 scagliandosi contro i giovani di Istanbul, che li utilizzavano per organizzarsi a Gezy Park. Anche durante la campagna elettorale per le amministrative del 2014 non ha risparmiato Facebook e Youtube, colpevoli di esser stati mezzo di diffusione delle intercettazioni di alcuni ministri, che hanno acuito i malumori dell’opinione pubblica.
La Turchia, chiamata “culla della civiltà” per le tante popolazioni che ha ospitato, è una repubblica parlamentare nella quale le forze armate, le seconda più grandi nella NATO dopo quelle USA, hanno un cospicuo potere e il Presidente è a oggi eletto a suffragio universale. Il Paese, membro fondatore dell’OCSE e del G20, secondo la classifica del Fondo Monetario Internazionale è tra gli Stati più sviluppati del mondo. Il boom economico della Turchia è stato straordinario: ha rapidamente innalzato il PIL, portandolo da 230 miliardi (2002) a 820 milioni (2013) e con esso la popolarità di Erdogan. Le prospettive future non paiono però così rosee, come riconferma la Banca Mondiale: l’alta inflazione alimentata da corruzione e difficoltà del settore pubblico sta iniziando a diminuire, ma i tassi di crescita oltre l’8%, come anche il più contenuto 4,2% del 2013, hanno ceduto il passo a incrementi del 2,9% (2014), scesi ulteriormente nel 2015 e stimati intorno al 3,6% nel prossimo biennio. Le crepe generate del rallentamento della crescita sono evidenti soprattutto nell’aumento della disoccupazione, slittata al 10% e particolarmente preoccupante in uno Stato in cui il 40% dei cittadini è Under 24. Come spiega Marco Bardonaglia, il deficit cronico della bilancia delle partite correnti turca, che importa più di quanto esporti, è finanziato principalmente da investimenti stranieri a breve termine e gli affitti sono il doppio di cinque anni fa. Non sono però aumentati proporzionalmente gli stipendi, determinando l’indebitamento crescente della popolazione, e il boom del settore immobiliare, finanziato anche dallo Stato, manda allarmanti segnali di una bolla pronta a esplodere.
«Un governo temporaneo con un primo ministro temporaneo stanno trascinando passo dopo passo il Paese in una guerra civile», sostiene Selahattin Demirtas, leader dell’HDP.
La partita in Turchia è di portata internazionale e si gioca tra incertezze, instabilità politica e una discutibile definizione delle priorità. Passa soprattutto attraverso strategie finora miopi e ambigue, che alimentano malumori e violenza da ogni fronte e paiono trasformare la guerra al terrorismo in una guerra privata pronta a degenerare.
Martina Masi