Lussemburgo: diritti civili e paradisi fiscali nel “cuore verde d’Europa”

16 Maggio 2015: per la prima volta il premier di un Paese europeo convola a nozze con il suo compagno. Siamo in Lussemburgo e i neosposi sono l’architetto belga Gauthier Destenay e Xavier Bettel, alla guida del partito di centro-destra Democratic Party e del Paese dall’ottobre 2013.

Dal 1945 sono stati solo due i Premier non affiliati al Christian Social People’s Party (CSV) che hanno guidato questo Granducato, titolo acquisito con il Sacro Romano Impero e che lo identifica inequivocabilmente anche oggi, in quanto l’unico rimasto al mondo. Il consenso nei confronti di CSV è sceso dopo gli scandali che hanno colpito Jean- Claude Juncker, attuale Presidente della Commissione Europea e Primo Ministro lussemburghese dal 1995 al 2013. L’opposizione di questa rilevante forza politica e il blocco del disegno di legge in Parlamento dal 2009 hanno allungato i tempi, ma sull’onda delle promesse della campagna elettorale il 18 giugno 2014 il Parlamento monocamerale ha detto “Sì” a matrimoni e adozioni da parte di coppie dello stesso sesso, con 56 voti favorevoli e solo 4 contrari.

Questo evento, con la sua risonanza mediatica e la recente uscita del Paese dalla Blacklist dei paradisi fiscali, è l’occasione per affrontare due importanti temi attuali: i diritti civili riconosciuti agli omosessuali e il sistema delle società offshore. Due aspetti a un primo sguardo totalmente slegati tra loro, ma proprio l’abisso che di solito separa le questioni civili ed etiche da quelle economico-finanziarie è un’anomalia dei nostri tempi che lede e svilisce la democrazia. Casi come quello del Lussemburgo mettono inoltre in luce l’incoerenza e le lacune di un percorso di crescita che oggi si traccia a livello nazionale ed europeo.

Con “unioni omosessuali” si fa riferimento a matrimoni civili e religiosi, riconoscimento di matrimoni celebrati all’estero, unioni civili o coabitazioni registrate. A questo tema si collega spesso quello della possibilità o meno di adozioni congiunte e del riconoscimento del figlio del partner. Di seguito una sintetica panoramica sui diritti delle coppie dello stesso sesso nel mondo, aggiornata al 2015.

In Italia non è riconosciuto agli omosessuali il diritto al matrimonio o alle unioni civili, anche se molti Comuni hanno iniziato a trascrivere sul registro delle unioni civili quelle contratte all’estero. Il 9 giugno la arriva anche da Strasburgo una nuova notizia: con 341 europarlamentari favorevoli, 281 contrari e 81 astenuti il Parlamento europeo prende atto dell’evolversi della definizione di famiglia, asserendo in una risoluzione non vincolante che «la composizione e definizione di famiglia cambiano nel tempo». Richiede quindi l’adeguamento delle leggi, che devono tener conto di fenomeni quali famiglie monoparentali e l’omogenitorialità. Si sollecita quindi la definizione di obiettivi chiari, azioni concrete e un monitoraggio efficace all’interno della nuova strategia dell’UE per la parità di genere e la lotta alla discriminazione.

L’approvazione di una legge che consenta i matrimoni tra persone dello stesso sesso è una rilevante lezione di civiltà da parte della piccola monarchia parlamentare ereditaria di Lussemburgo, molto nota per essere una delle fondatrici dell’Unione Europea e per ospitare la cittadina di Schengen, che ci riporta agli accordi sulla libera circolazione delle persone tra Stati UE e al rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne. Le sue dimensioni sono molto limitate e ridottesi ulteriormente quando l’ottenimento dell’indipendenza dai Paesi Bassi gli costò una parte del territorio. Conta poco più di mezzo milione di abitanti, vanta al contempo un altissimo tenore di vita e un reddito pro-capite tra i più elevati al mondo. La favoleggiante atmosfera porta i segni di una storia travagliata, fatta di colonialismo, violazione della neutralità e di due occupazioni tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale. La città è costellata di rifugi antibombardamento e da una fitta rete di tunnel sotterranei, riconosciuta patrimonio dell’UNESCO. Tra eccezionali bellezze naturali si ergono 109 splendidi castelli medievali e un tripudio di arte, che l’ha resa per due volte Capitale Europea della Cultura. Tanto le bellezze e l’atmosfera quanto la ricchezza e le opportunità lavorative di questo Stato attirano migranti soprattutto dai Paesi limitrofi, oltre che da Italia e Portogallo. Tanti altri invece curano qui rilevanti interessi, al di là delle distanze geografiche. Il fiore all’occhiello del Lussemburgo è infatti il settore bancario, che lo rende una fiorente piazza finanziaria, mosaico di banche ben più numerose dei suoi pittoreschi castelli. Una crescita tanto imponente è stata determinata dalle caratteristiche del suo sistema interno, la strategica posizione geografica, risorse umane altamente specializzate, ma anche dal segreto bancario, che per tutelare la privacy del cliente ostacola la sua identificazione, dando però adito a fenomeni quali elusione fiscale e riciclaggio di denaro.

Questo piccolo Stato ci da quindi l’occasione per trattare il secondo dei temi citati: le conseguenze di sistemi fiscali fortemente disomogenei nell’UE e i paradisi fiscali.

Paradisi-Fiscali-nel-Mondo

La nascita di paradisi fiscali viene favorita negli anni Settanta dalla liberalizzazione finanziaria e dalla globalizzazione. All’inizio degli anni Novanta nel Granducato di Lussemburgo vara la legislazione sulle holding, ovvero società che controllano i pacchetti azionari di colossi finanziari e industriali, fungendo da casseforti. Una direttiva UE ha permesso alle aziende di pagare le tasse in uno Stato europeo diverso da quello in cui operano, tramite un sistema di prestiti da un Paese con un’alta imposizione fiscale a una holding situata nel Lussemburgo. Questa filiale, la cui presenza è spesso solo simbolica (1600 aziende sono registrate allo stesso indirizzo), è anche funzionale alla concessione di nuovi prestiti ad altre filiali fuori dal Lussemburgo. La gran parte degli introiti viene quindi fatta confluire nella holding con sede nel Granducato tramite una rete di prestiti infragruppo, trattando i ricavi come fossero ottenuti all’estero e sottraendoli quindi all’imposizione fiscale dello Stato nel quale sono stati effettivamente prodotti, con buona pace del suo erario. I soggetti che negli anni se ne sono avvantaggiati hanno pagato sugli utili trasferiti a Lussemburgo aliquote anche inferiori all’1%. La tassazione dei profitti delle multinazionali qui è bassissima, quindi il meccanismo erode le basi imponibili degli Stati con una più alta pressione fiscale, spostando i profitti. Grazie a questo regime il Lussemburgo ha iniziato ad attrarre grandi colossi creando un’immensa industria dei fondi di investimento, seconda solo a quella americana.

Verso la fine del 2014 i giornalisti dell’International Consortium of Investigative Journalism (ICIJ), appropriatisi di informazioni riservate, pubblicano un rapporto che, partendo da 28mila pagine di documenti, analizza il regime fiscale lussemburghese e gli escamotage di grandi banche e aziende che lo hanno utilizzato per eludere il fisco. L’imponente società di revisione PriceWaterhouseCoopers (Pwc) viene attaccata per aver sottoscritto accordi con aziende, definendo con queste strategie finalizzate a spostare i loro profitti da una parte delle loro società a un’altra, al fine di ridurre o eliminare il reddito imponibile. Scoppia così lo scandalo LuxLeaks, che porta sotto i riflettori i meccanismi di dumping e di elusione fiscale.

Oltre 340 i colossi imprenditoriali, bancari e finanziari con i quali il Lussemburgo avrebbe sottoscritto questi accordi segreti, tra cui 31 società italiane quali Intesa San Paolo, Unicredit, Ubibanca, Banca delle Marche, Banca Sella, aziende di Stato come Finmeccanica, Telecom Italia ecc. Tra gli altri nomi spiccano Amazon, Ikea, Dyson, Pepsi, FedEx, Blackstone, Deutsche Bank, o JP Morgan, Burberry, Skype, Walt Disney e Koch Industries.

Ne emerge un quadro anomalo che ha dato adito ad accuse di collusione per elusione fiscale tra il governo e le società straniere, ma il punto focale è l’assenza di un vero e proprio reato, nonostante si tratti di un sistema che di fatto sottrae risorse agli altri Paesi europei. Il Granducato risponde a gran voce che “Il sistema lussemburghese di tassazione è competitivo – non c’è nulla di ingiusto o immorale a riguardo. Se le aziende riescono a ridurre il carico fiscale questo non è un problema di un sistema fiscale, ma dell’interazione di numerosi sistemi fiscali.” E infatti le accuse dei giornalisti di ICIJ si abbattono inevitabilmente sul consenso della  Commissione Europea al permanere di regimi di imposta agevolati nei Paesi Bassi, Irlanda e Lussemburgo, piuttosto che creare condizioni fiscali paritarie tra i Paesi UE.

Riguardo le consulenza e l’assistenza fiscale di Pwc alla base di questo sistema, le autorità lussemburghesi ribadiscono la conformità alle leggi fiscali locali, europee e internazionali. Se non può essere condannato il tentativo di uno Stato di attirare investimenti (tax ruling), la situazione cambia quando si avvantaggiano alcune imprese rispetto ad altre e non è comunque ammissibile chiudere gli occhi davanti a un sistema che viene spesso sfruttato per riciclare denaro, oltre che per eludere il fisco.

Dopo le informazioni parziali e incomplete fornite in passato, l’attuale premier ha dato la sua disponibilità a collaborare all’inchiesta della Commissione Europea, fornendo le informazioni richieste. All’inizio del 2015 il Parlamento Europeo ha quindi istituito una commissione speciale sulle decisioni fiscali degli Stati membri dell’UE.

L’eco dello scandalo provocato da LuxLeaks, che ha messo davanti all’opinione pubblica un sistema già noto, ha scatenato anche reazioni politiche e riportato Juncker nell’occhio del ciclone, dopo le dimissioni da Primo Ministro nel 2013. Perse infatti il sostegno Parlamentare a causa dello scandalo su presunti illeciti dell’intelligence, tra cui tangenti e intercettazioni, e fu costretto alle dimissioni. Avendo guidato il Paese per 18 anni sia come primo ministro che come ministro delle Finanze e del Tesoro venne accusato per il suo operato nel periodo oggetto dello scandalo.

Nel nostro Paese il Movimento 5 Stelle ha presentato al Parlamento europeo una mozione di censura votata da 76 deputati per chiedere le dimissioni della Commissione Juncker, già Presidente dell’Eurogruppo fino al 2012 e Presidente della Commissione Europea da Novembre 2014. Lo si accusa di aver utilizzato il suo strapotere a livello europeo per curare interessi nazionali. Un inaccettabile tradimento dello spirito comunitario secondo i sottoscriventi, che dovrebbe invece essere alla base dell’Unione, e un’operazione finalizzata all’arricchimento del proprio Paese grazie a schemi di elusione fiscale lesivi degli altri Stati.

La speranza di percorrere qualche passo lungo un percorso più virtuoso si è concretizzata ultimamente, anche se considerando i trascorsi e quelli che sono i poteri forti la strada è ancora lunga e tortuosa: nel 2013 il Lussemburgo si è impegnato a conformarsi a una direttiva UE che modifica dal 2015 le regole sullo scambio di informazioni con gli altri governi dell’Unione. Dall’inizio di quest’anno sono stati 21 gli Stati e le giurisdizioni cancellati dalla Blacklist, grazie ad accordi per lo scambio di informazioni in materia fiscale, privando dell’appellativo di “paradisi fiscali” quasi tutti gli Stati europei. La Blacklist in ambito economico è appunto quella lista che elenca i paradisi fiscali, Paesi che attirano il capitale straniero grazie a una imposizione bassa o nulla sui depositi bancari. Il ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan ha firmato il decreto che depenna dalla Blacklist il regime fiscale delle holding lussemburghesi del 1929, criticato dalla Commissione Europea in quanto non conforme alla normativa sugli aiuti di Stato. Questo favorirebbe infatti solo alcuni operatori finanziari e sarebbe lesivo del principio di concorrenza. Ma ancor prima la non conformità era ricaduta sul regime delle cosiddette “holding miliardarie”(decreto granducale 17 dicembre 1938).

Ad oggi è proprio lo scambio di informazioni il criterio focale, che determina la presenza o meno nella Blacklist. Fino al 2 marzo 2015 è stato possibile agli Stati in essa elencati la stipula di accordi con l’Italia, avvalendosi della legge 186/14 e favorendo quindi una procedura volontaria e meno costosa di rientro dei capitali (voluntary dislocure). Ne deriva l’impossibilità per le autorità lussemburghesi di opporre il segreto bancario nel momento in cui l’Italia richiederà informazioni relative a un contribuente.

Freedom House, organizzazione internazionale che vigila su diritti politici, libertà civili e democrazia nel 2014 promuove nuovamente il Lussemburgo a pieni voti: è uno Stato virtuoso formato per 1/3 da stranieri, nel quale vige un’effettiva libertà di espressione, associazione, organizzazione, un alto grado di pluralismo politico, il peculiare voto obbligatorio e molteplici fonti di informazione al servizio dei cittadini. Anche le condizioni delle sue carceri rispettano i parametri europei, in teoria non esiste una religione di Stato e il livello di corruzione risulta basso. Eppure a proposito di corruzione spicca il caso Juncker, rappresentante delle alte sfere a livello nazionale e internazionale, e il 95,6% dei finanziamenti statali a sostegno della Chiesa Cattolica di fatto penalizzano gli altri culti. Lo stesso decantato multiculturalismo è ben poco solidaristico e assegna al Lussemburgo un triste primato: con il 95% di domande d’asilo rifiutate è il primo respingitore in Europa e quando ha ospitato rifugiati è stato criticato per averlo fatto in un ex manicomio isolato. Inoltre non ha ancora messo in atto un sistema di protezione completo per le vittime della tratta di esseri umani. Soprattutto agli alti livelli di governo le donne sono sottorappresentate e si prevedono sanzioni in caso di aborto “non approvato”. Senza considerare poi la natura di grande centro finanziario offshore che lo ha caratterizzato fin ora e che, seppure non rilevante penalmente, è stato strumento discutibile per la creazione della sua immensa ricchezza.

La perfezione è un’utopia, è necessario considerare gli ideali come qualcosa verso cui tendere pur nella consapevolezza di un’impossibile piena realizzazione e questa non vuole essere una sterile critica al potente Granducato, bensì un monito contro le mitizzazioni e la tendenza a semplificare: non è tutto oro quel che luccica, neanche lo sfavillante Lussemburgo, e oltre ai lodevoli punti di forza che meritano di essere un esempio nel mondo è necessario puntare l’attenzione non solo sul risultato, ma anche sul percorso seguito per ottenerlo e sugli strumenti a disposizione. Un percorso talvolta ricco di contraddizioni e tracciato anche grazie a regole nazionali e soprattutto sovranazionali di dubbia coerenza, sul filo di una legalità spesso confezionata su misura, che rende la vita più facile ad alcuni Stati e più difficile ad altri.

Martina Masi

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