«Il Brasile è la somma meravigliosa di ogni possibile contraddizione: in ogni uomo veramente brasiliano scorre un sangue ricco di fermenti europei, africani, indios, meticci, ed è proprio questo che rende il Brasile così magicamente colmo di luci ed ombre, così fragile, allegro, violento, e tuttavia così impossibile da dimenticare».
J. Amado
Essere la sesta potenza economica al mondo e apprestarsi a divenire forse la quinta non impedisce che un Paese sia al contempo tra i dodici con maggiore diseguaglianza. È il caso del Brasile, che secondo i dati dell’Instituto Brasilero de Geografia e Estatistica presenta una situazione di estrema povertà per 16.2 milioni di persone, con il 35% della popolazione che vive in condizioni abitative molto precarie, la malnutrizione che affligge il 37% dei bambini e un’esclusione sociale strutturalmente radicata. I valori medi nazionali di sviluppo mascherano le immense disparità tra le più floride regioni meridionali e sudorientali e quelle settentrionali e nordorientali più svantaggiate. Un elemento chiave per interpretare la disuguaglianza è il razzismo: non è un caso se la gran parte dei brasiliani più poveri è nera, mentre la popolazione ad alto reddito è essenzialmente bianca. In Brasile convivono infatti diverse etnie, situazioni economiche, ambientali e produttive. Ha un popolo di indios (in costante riduzione), consistenti comunità di origine europea e africana. Di recente la crescita economica ha incontrato qualche ostacolo, ma si è mostrata abbastanza costante negli anni e le prospettive future paiono essere positive.
Il problema principale del Paese ha origini antiche e si trascina fino ai giorni nostri: capitali e interessi privati si intrecciano con patrimonio e interessi pubblici, creando corruzione e la tendenza ad agire secondo la così detta Ley de Gerson. Si tratta della ricerca di vantaggi personali in tutto ciò che si fa, anche approfittando di persone e situazioni. Non l’avete mai sentita nominare? Di certo ne avrete però avuto esperienza. Se la democrazia brasiliana è formalmente matura, spesso non lo è sostanzialmente e il modello di diritto vigente è incapace di affrontare problemi di ordine collettivo. Nel 2012 uno dei politici più noti è stato condannato al carcere per corruzione, a seguito di uno scandalo di compravendita di voti che nel 2005 coinvolse quasi quaranta politici. È un evento di forte impatto simbolico, ma di certo non sufficiente per arginare il cancro della corruzione e creare fiducia nelle istituzioni.
La violenza è un serio problema nel Paese, nonostante non sussistano particolari dispute territoriali, guerre civili, scontri religiosi, razziali o etnici. Si tratta di una violenza che colpisce soprattutto i più poveri, poiché l’atteggiamento della polizia cambia a seconda della classe sociale di appartenenza e il senso di insicurezza finisce per legittimare qualsiasi azione delle forze dell’ordine, anche quando sfocia in torture e abusi. A dispetto delle garanzie costituzionali questi rappresentano la regola, specie nelle zone rurali e nelle favelas.
La divisione sociale è netta: i ricchi tendenzialmente non hanno rapporti con i poveri delle baraccopoli, i loro palazzi si ergono a pochi passi dalle zone di degrado, le loro ville sono circondate da alti muri. Controlli di videocamere, polizia privata e vigilantes giorno e notte sostituiscono l’inefficiente sistema di sicurezza statale. Il permanere dell’eredità oligarchica del passato alimenta alcuni tra gli aspetti più drammatici, ovvero la violazione dei diritti umani e l’elevata disuguaglianza sociale, che priva di aspettative future milioni di individui.
Questo non frena le frequenti proteste dell’accalorato popolo brasiliano, che mostra orgogliosamente determinazione e la potenza dei grandi numeri. Senza andare troppo indietro nel tempo, l’aumento del prezzo dei biglietti dei bus in vista dei mondiali di calcio, in un luogo in cui i più non possiedono un mezzo di trasporto, ha generato un’onda irrefrenabile di manifestazioni in moltissime città, obbligando il Governo a chinare la testa. Come sappiamo, l’attenzione dedicata alla costruzione di infrastrutture connesse all’esosa manifestazione sportiva non ha entusiasmato i brasiliani meno abbienti, innamorati del calcio ma adirati per la marginalizzazione dei reali bisogni che avrebbero dovuto dirottare quei 13 miliardi in ben altre direzioni. Per due anni prima dei mondiali è stata portata avanti una sistematica “pulizia” delle favelas, con numerosi omicidi di trafficanti, ladri ma anche di molti abitanti comuni, per fare apparire la zona più governabile e il degrado meno estremo di quanto non fosse realmente. I mondiali sono stati anche l’alibi usato da nuove frange di criminalità per introdursi nel Paese, incrementando esponenzialmente nelle donne il terrore di vedersi sottrarre i propri figli, poi incanalati in traffici di organi e bambini. Quando non si è stati sfrattati violentemente dalla propria abitazione, i prezzi degli affitti aumentati anche di dieci volte hanno ottenuto il risultato sperato: molte famiglie sono state costrette a spostarsi nelle zone più malfamate e mal collegate con il posto di lavoro.
Ma passato un certo limite non c’è nulla che argini il desiderio dei brasiliani di far sentire la propria voce, neanche se questo richiede lo spostamento dalla zona amazzonica armati di archi e frecce e se molti presentano mutilazioni o saranno costretti a usare stampelle a vita. Parlando con loro emerge che la causa sarebbe spesso lo scontro con le brutali forze dell’ordine, da un canto impegnate nel duro compito di fronteggiare una criminalità diffusissima, dall’altro dotate di armi, manganelli di dimensioni spropositate e di un discutibile senso di umanità, dietro lo schermo di una garantita impunità. Ma i riflettori del mondo erano puntati sul Brasile e lo spettacolo doveva continuare, per questo oltre 1 miliardo fu investito nella sicurezza. Quella a tutela dei poteri forti e dei turisti.
La situazione non cambia fuori dal contesto dei mondiali: poco conta che si delinqua per fame e che disperazione e assenza di mezzi alternativi siano la ragione di alti livelli di criminalità. Soprattutto nelle zone turistiche non esiste proporzione per il brasiliano povero tra reato e pena, spesso applicata seduta stante dalle forze dell’ordine. “Quando il saggio indica la luna lo stolto guarda (o meglio, sceglie di guardare) il dito”. E quando il colpevole è troppo difficile da individuare qualcuno deve pur pagare, ma chi ha poco da perdere non conosce paura e questo rende il conflitto sempre pronto a esplodere. Eppure nonostante gli alti tassi di povertà è davvero raro incontrare qualcuno che chieda l’elemosina. Il bisogno vero e profondo della gente emerge proprio nella richiesta ai passanti di cibo e acqua piuttosto che di denaro.
Le organizzazioni criminali, divise in fazioni, sono spesso supportate dalla polizia e la prostituzione di donne e bambini è, insieme al traffico di droga, uno dei morbi più dirompenti. Sono alimentati dallo spostamento nelle grandi città alla ricerca di lavoro: il primo spinge a vendere il proprio corpo, anche per esigue somme di denaro; il secondo è causa di numerosi omicidi, quando i malcapitati non possono pagare.
Il Brasile non è mai silenzioso, soprattutto le favelas fanno spesso sentire la loro voce a chilometri di distanza. L’altra faccia è quell’estrema calma, tanta calma, a volte troppa per i parametri di noi occidentali agitati. Per loro è importante il presente, il domani è già un concetto meno interessante. È un popolo con priorità e ritmi di vita diversi dai nostri, per questo anche a lavoro si va con lentezza. Noi diremmo “in ritardo” , loro direbbero soltanto “vado a lavoro”.
Il sistema educativo pubblico è inadeguato e le scuole private molto care. Altrettanto si può dire del sistema sanitario, con una bassa spesa pro-capite, pochi ospedali e medici specializzati, assicurazioni private carissime, specie per i più anziani. E si è anziani già a 60 anni, ma con il vantaggio di vivere in un luogo in cui la vecchiaia è solo anagrafica. L’impressione che si ha quando si entra a contatto con questo splendido popolo è l’assenza di quelle convenzioni sociali che spingono a cambiare l’approccio alla vita al raggiungimento dell’età adulta. Fermo restando le differenze che esistono da zona a zona e tra individuo e individuo, invecchiare in Brasile non significa dover smettere di divertirsi come si desidera. Questo tipo di cambiamento può essere dettato dalle diverse esigenze individuali, ma non da un modello di società che, step dopo step, predispone nette modifiche al modo di esprimersi e divertirsi in base all’età.
Il contatto con questo Paese e la sua gente serba molte sorprese: così come in Italia anche qui emergono stereotipi nazionali quali calcio, birra, televisione e donne, che distolgono l’attenzione dalle lotte che dovrebbero avere la priorità. Quel “tudo bem!”, accompagnato da radiosi sorrisi che sembrano emergere dai più profondi anfratti del loro animo, mostra un desiderio di contatto e condivisione avvolgente e fine a se stesso, disinteressato. Alla sfiducia nelle istituzioni fanno quindi da contraltare empatia e fiducia incondizionata per le persone con le quali si condivide nel quotidiano.
In gran parte del Brasile non c’e il culto della fatica e del sudore, se non è causato da samba, capoeira, forò, funk brasilero. A riguardo bisogna precisare che la disoccupazione è diminuita costantemente, ma le aspettative per il povero non qualificato non sono cambiate di molto: lavorare per migliaia di loro è sinonimo di sfruttamento, se non di schiavismo.
Lo spirito di adattamento e la capacità di accontentarsi di ciò che hanno si manifesta in un’esplosione costante di allegria fuori dall’immaginario. La festa in questo immenso Stato non è solo un modo per trascorrere il tempo divertendosi, ma uno stile di vita strettamente legato alla profonda consapevolezza che l’esistenza è un dono unico, da godere ogni giorno. Per questo uscendo in strada, che tu sia una persona più o meno espansiva, non sfuggirai al contagio dell’empatia e del ritmo. Non a caso il Carnevale di Rio attira gente da ogni parte del mondo e, a detta di chi l’ha vissuto, “genera una pazzia incontenibile e incontrastabile…non si può descrivere, bisogna provarlo!”.
Dall’entrare per sbaglio in una festa privata di un deputato del Partido de los Trabajadores all’essere coinvolti in chiacchierate e balli diventando l’anima della festa il passo è breve (no, nessun secondo fine e niente a che vedere con il “festino politico all’italiana”). In Sud America è facile farsi incantare da quella magica informalità che abbraccia rami della società inaccessibili nel nostro contesto, quelli con i quali un contatto diretto e addirittura l’accoglienza sono per noi impensabili. Se ne può avere la percezione senza esserci mai stati, basta paragonare le modalità relazionali di Papa Francesco con quelle dei suoi predecessori.
Quando si pensa al Brasile il pensiero va automaticamente alle già citate favelas. La favela è una pianta del deserto brasiliano, tipica della zona nella quale ebbe luogo la guerra di Canudos. Alla fine del 1800 gli ex soldati, privi di abitazioni e di una retribuzione, diedero questo nome ai rifugi che crearono nella zona di Rio de Janeiro. Infatti, pur con variabili livelli di degrado, la favela purtroppo è anche un’abitazione costruita prevalentemente con scarti edili, caratterizzata da povertà, servizi igienici assenti, fogne a cielo aperto, assenza di acqua potabile, insicurezza e inevitabile dominio di organizzazioni criminali e gruppi paramilitari. Spesso sono le esigenze lavorative e l’impossibilità di permettersi un altro tipo di dimora che determinano la loro espansione: quasi la metà delle migliaia di favelas brasiliane si concentra nella regione sudest e solo nella zona di Rio de Janeiro ne esistono 480. In gran parte di queste la popolazione aumenta a ritmi doppi rispetto a quella della città e la società continua ad annientare in questi ghetti la dignità di gente considerata un rifiuto sociale, obbligata a vivere in un degrado inaccettabile per un Paese così forte economicamente e tendenzialmente esclusa da scuole, possibilità di un dignitoso impiego e da relazioni con gli esterni all’ambiente. Ma le favelas non potrebbero essere solo questo, perché ad abitarle sono appunto i brasiliani, che portano con sé una carica di ottimismo, creatività e spirito di adattamento inimitabili. Artisti straordinari abitano questi luoghi dimenticati da Dio e facendo tesoro del poco che hanno a disposizione danno vita a un microcosmo produttivo: Berbela è capace di costruire qualsiasi cosa con il ferro, Estêvão si occupa di architettura e decorazioni riprendendo lo stile di Gaudì (che non ha mai sentito nominare), nella favela Paraisópolis sorge la Becei, prima biblioteca aperta da un privato in una favela, a Rio de Janeiro gli artisti tedeschi Haas&Hahn portano avanti con la comunità locale progetti artistici straordinari, per coinvolgere i giovani in attività creative e lavorative, dando un piccolo grande contributo alla trasformazione dell’ambiente e alla restituzione di un minimo di dignità a quanti vengono considerati meno di niente. Il risultato è stupefacente e le immagini parlano da sole ( www.favelapainting.com)
Il Brasile è un Paese che avrebbe tutto ciò che serve per vivere uno sviluppo più equilibrato, a beneficio della sua gente: immense terre coltivate, ancora soffocate dal latifondo (il 45% delle proprietà nelle mani del 2% della popolazione) che è causa di un tenore di vita delle popolazioni rurali tra i più bassi al mondo; massicce esportazioni mondiali di derrate alimentari che potrebbero essere usate prima di tutto per far fronte ai bisogni della popolazione; rilevanti giacimenti di petrolio, bauxite, manganese, ferro, oro e diamanti; un’industria dallo sviluppo eccezionale che ha però avuto ricadute economiche sulla zona amazzonica, ostacolando il boom del caucciù con la spietata concorrenza della gomma sul mercato mondiale. La sfida continua, tra le contraddizioni profonde di uno dei posti più belli della terra, eccezionale e disgraziato come gran parte della sua gente.
Ma ogni posto ha le sue favelas e quante volte ci siamo girati dall’altra parte nelle nostre città, fingendo di non vedere il degrado e lo squallore dell’umiliazione sul viso di chi non ha niente? Quante volte abbiamo negato a un povero che ci si è avvicinato in strada quell’attenzione che avremmo riservato a una persona ben vestita? Quanti muri abbiamo innalzato tra noi e chi è più sfortunato, escludendo anche inconsciamente ogni possibilità di contatto, di confronto e condivisione? Le favelas più cupe e degradate sono dentro di noi e solo quando saremo capaci di trasformarle in qualcosa di diverso potremo sperare di non vederle più davanti i nostri occhi, o quantomeno di non essere complici di un sistema di isolamento e pregiudizi che soffoca la dignità umana.
Grazie a Stefano, Davidson e Vincenzo per aver condiviso con me la loro esperienza diretta.
Martina Masi