“Quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata”, recita un proverbio africano tristemente attuale. Il continente più martoriato del pianeta continua a collezionare profonde cicatrici, che passano inosservate sotto una cascata di cifre esorbitanti relative alle perdite umane, quelle perdite tutto sommato accettabili. L’orrore di questa definizione deriva dalla distanza che la gran parte degli occidentali percepisce, in modo più o meno cosciente, tra il “proprio mondo” e una realtà che pare così lontana, dalla quale risuona l’eco vuoto di quei numeri.
Parliamo di Paesi che spesso non sapremmo neanche collocare geograficamente e se anche la situazione di alcuni di essi è migliorata negli ultimi quindici anni, la distanza dai più sviluppati è fortemente aumentata.
Tra i tragici avvenimenti recenti del continente africano troviamo quelli che continuano ad interessare il Kenya, Stato dell’Africa orientale scosso da conflitti interni, ai quali si aggiungono quelli cruentissimi nelle confinanti Somalia e Sud del Sudan. Il 2 aprile 2015 il gruppo militante islamista Al-Shabaab irrompe nel campus universitario di Garissa uccidendo 148 giovani. Tra critiche ai sistemi di sicurezza e alla lentissima risposta all’attacco, il governo reagisce ai miliziani bombardando i campi di addestramento di Gondodowe e Ismail situati nella zona di confine, mentre musulmani e cristiani rispondono scendendo in piazza uniti contro il terrorismo e rivendicando maggiore sicurezza nei campus. Questo terribile episodio, che non pare aver smosso particolarmente la comunità internazionale, segue da vicino episodi minori e quello del 21 settembre 2013, ovvero la nota sparatoria nel centro commerciale Westgate a Nairobi, che costò la vita a 68 persone.
Su questi fatti si è già detto molto, ma che Paese è il Kenya e chi sono i suoi abitanti? Indipendente dalla Gran Bretagna dal 1963, presenta le tipiche caratteristiche dei Paesi in via di sviluppo, ovvero bassi standard di vita e basso reddito, bassa produttività e un’alta crescita demografica, così come alta è la dipendenza dalla produzione agricola e dall’esportazione di materie prime. La siccità e la crisi economica hanno contribuito a portare la disoccupazione già alta attorno al 40%, dato più o meno costante fino ad oggi, devastando l’economia e causando letali problemi ambientali, quali desertificazione, erosione e deforestazione, carenza di acqua e cibo. Fattori congiunturali e strutturali negativi rendono i cambiamenti lenti e approssimativi, generando una particolare dipendenza e vulnerabilità nelle relazioni internazionali e commerciali, che caratterizza gli Stati ai quali sfugge il controllo delle proprie risorse e la possibilità di divenire padroni del proprio futuro. Il tasso di accrescimento della produzione industriale è infatti basso e altalenante, le importazioni superano di gran lunga le esportazioni, scarseggiano investimenti e progresso tecnico. Anche se il PIL registra un trend di crescita positivo, attorno al 5%, questo è determinato in gran parte dal turismo, che ha purtroppo risentito dell’allarme terrorismo e dell’ebola, nonostante questa pericolosa malattia non abbia interessato il suo territorio. Il Kenya è anche lo Stato nel quale quasi il 50% della popolazione vive al di sotto la soglia di povertà, dato rimasto quasi invariato negli anni. Lo stesso consumo di elettricità è rimasto costante dal 2000, a testimoniare che la gran parte degli oltre 43 milioni di persone che lo abitano non avevano accesso all’energia elettrica e continuano a vivere nelle medesime condizioni. Obiettivi rilevanti sono stati raggiunti per quanto riguarda l’alfabetizzazione, la lotta ad HIV/AIDS e l’implementazione della rete stradale, ma la situazione è molto differente nelle diverse aree. L’apparente miglioramento nella provincia di Nairobi ha ben presto mostrato i propri limiti, sfociando in un sovraffollamento ingestibile e nella nascita/ampliamento di svariate zone limitrofe di degrado e povertà estrema. Viene inoltre spontaneo chiedersi cosa significa parlare dei miglioramenti nelle sovraffollate e invivibili metropoli se la vita ad un passo, nelle baraccopoli tra le più grandi al mondo, è sempre rimasta la stessa.
Il desiderio di una vita diversa attira ogni anno dalle zone rurali una crescente quantità di persone in fuga dalla povertà, che spesso si ritrovano in contesti a loro totalmente estranei. Si muovono disorientate nel caos grigio di città troppo care per le loro possibilità, che le riducono a vivere in condizioni peggiori di quelle di partenza, in alloggi di fortuna, nell’incapacità di far fronte ai bisogni primari. Se in molte campagne , caratterizzate da servizi carenti, energia elettrica e acqua corrente inesistenti si sogna l’Eldorado della città, molti però ignorano prima della partenza quel devastante elemento che è il tormentoso e umiliante confronto tra la propria condizione e quella dei più fortunati. La vita nei campi è scandita dai ritmi della natura e da un meraviglioso e avvolgente senso di comunità, che collassa davanti alla frenesia e all’elevata microcriminalità dei grandi centri, con la loro espansione troppo rapida. La solidarietà e una fitta rete di rapporti e interdipendenze sono cresciute esponenzialmente nelle aree rurali, dove il mal comune ha reso normale che in ogni casa ci sia almeno un orfano, accolto con naturalezza dopo la morte dei suoi familiari. Sono quelle zone che rievocano in noi l’immagine dell’ “Africa vera” anche se non l’abbiamo mai visitata, fatta di terra rossa, di genti color ebano chine sui campi, di bambini con tristi abitini a brandelli che corrono a piedi nudi, liberi e sorridenti. Lo stesso sorriso che illumina i visi dei più e che è la ragione per la quale, vivendo la quotidianità al loro fianco, si prova una sensazione del tutto diversa da quella che si immagina prima della partenza. Sono esperienze che si affrontano solo grazie a quei sorrisi e che ti schiacciano quando in alcuni istanti la loro allegria vacilla. Il profondo amore per la vita, quella forza indomabile che li fa camminare a testa alta, lo sguardo puntato in avanti lungo un cammino nel quale la morte è una compagna costante, da accettare pur continuando la speranzosa lotta per indebolirla, lascia stupefatti noi poveri occidentali, tanto invidiati per i nostri averi quanto pieni di niente. L’impagabile incontro di quelle mani scure che stringono le tue, dopo essersi sincerati con gioiosa esalazione che non stingerai quando ti toccheranno, ti regala tutto e prende qualcosa di te che non potrai chiedere indietro. I problemi del Kenya non consistono solo in carenza di infrastrutture e servizi, ma anche nella scarsa consapevolezza relativa ai metodi da utilizzare per prevenire malattie e curarle. Ed è così che una febbre non viene tenuta sotto controllo, anche in quelle aree dove malaria e tifo mietono continuamente vittime ed una visita nel centro di salute più vicino scongiurerebbe il peggio. La rete antizanzare finisce spesso sull’orto a difenderlo dagli animali, non si cura l’igiene e molte donne continuano a partorire in casa. Sono abitudini difficili da cambiare, dettate spesso da informazioni carenti e confuse nelle mani non solo di contadini e pastori, ma anche di maestri e professori. Il sistema scolastico mostra immense falle, sia per la scarsa presenza di docenti, sia per la sua esosità che non di rado riconosce il diritto allo studio solo a coloro che possono permettersi di pagare i maestri (privati, in strutture pubbliche) per sostenere gli esami. Non ci sono molti poli universitari, per cui frequentarli o meno dipende dal potersi permettere le spese del trasferimento e il pagamento delle tasse. La Chiesa ha un cruciale ruolo sociale in contesti tanto problematici, ma mostra a volte immense falle negli ottusi slogan sull’astinenza, che prevaricano l’essenziale educazione sessuale e la necessaria distribuzione di preservativi.
Non c’è una sola Africa, ne esistono milioni, così come ci sono milioni di Kenya. Ma la mia Africa e il mio Kenya sono la pace delle campagne baciate dal sole, le mani spaccate dai vestiti lavati a mano, i vani tentativi di evitare il fango per non dover strofinare per ore, la condivisione, le risate squillanti e felici che ti rincorrono mentre percorri le stradine e i saluti dai campi della gente che urla il tuo nome (quando finalmente smette di chiamarti “muzungu”). Sono il cibo mangiato rigorosamente con le mani, le alluvioni improvvise e inarginabili che allagano le abitazioni, il senso di famiglia che va ben al di là dei legami di sangue, le bizzarre idee riguardo l’Europa, che poco hanno a che vedere con la realtà. Sono la perplessità davanti alla cintura obbligatoria sui bus di linea, ma l’irreperibilità del casco sulla moto-taxi che trasportano quattro persone per volta, la totale mancanza di cura per gli oggetti (anche i più agognati), l’indifferente e irritante frastuono mentre si dorme, l’inesistenza del tempo che si dilata all’infinito. È Kenya anche l’energia elettrica intermittente, l’acqua tirata su dai pozzi, i tramonti rossi e quelli giallo-blu (che il Kenya è tutti i colori, molti in più di quelli che ci si aspetta), le tartassanti telefonate, le spaghettate all’italiana di chi accetta tutto, ma si rifiuta di spezzare la pasta e cuocerla all’inverosimile, l’ardente desiderio di essere fotografati, di essere assolutamente ricordati, rimanere in qualche luogo, fosse anche solo su una pellicola. È “hakuna matata”, perché preoccuparsi troppo fa male alla vita, la lotta con le zanzare e la rete intorno al letto per difendersi dalla malaria, dentro una “gabbia” che prima ti innervosisce e poi ti fa sentire beatamente protetta. È i balli e i canti, anche dentro casa, le attese infinite, luoghi pullulanti di vita che si spengono lentamente al tramonto del sole in un’oscurità sconosciuta e seducente, gli spazi immensi e il continuo vibrare della madreterra che ti assale i sensi e ti rende microscopica. La mia Africa e il mio Kenya sono soprattutto l’immensità della comunicazione non verbale, fatta di sguardi, contatto fisico e sorrisi disarmanti. È il folle amore per la vita, vista sempre come il più grande dono, la differenza tra necessario e superfluo, la costante fiducia nel cambiamento anche quando tutto crolla e bisogna ricominciare instancabilmente da capo, ma senza arrabbiarsi mai troppo.
Siamo portati a collegare automaticamente l’Africa alla povertà e quindi all’ignoranza, ma anche questo è tutto sommato un punto di vista e dipende dal significato che attribuiamo ai termini. La maggior parte dei kenioti ad esempio parla tre lingue: l’inglese, la lingua della propria comunità di origine e il Kiswahili, una delle dodici lingue più parlate al mondo. La loro terra è caratterizzata da una marcata diversità etnica, accoglie infatti ben 42 tribù con proprie peculiarità culturali, ma inscindibilmente legate tra loro, perché “nella foresta, quando i rami litigano, le radici si abbracciano” e quell’abbraccio è l’unico possibile motore dello sviluppo e del cambiamento.
Martina Masi