Synecdoche, New York // Charlie Kaufman

Una delle notizie più sconcertanti del 2014 è senza dubbio la morte prematura di Philip Seymour Hoffman, attore outsider, capace di vestire ruoli scomodi e poco rassicuranti e trasformarli in indimenticabili interpretazioni (su tutte ricordiamo Truman–Capote dove vinse un meritatissimo premio oscar come attore protagonista nel 2005 fino ad arrivare a The master, altra interpretazione che gli valse la coppa volpi alla mostra di Venezia 2012).

L’uscita di questo film ora è abbastanza discutibile, primo perché vede la programmazione nelle sale in un periodo non proprio “di punta” della stagione cinematografica e poi perché non è come si potrebbe erroneamente pensare l’ultima interpretazione di Hoffman, (visto che la pellicola è del 2008) e probabilmente senza la sua morte non avrebbe mai trovato una distribuzione. Quindi il film pur non essendo tra i più comprensibili merita comunque una visione, se non altro per apprezzare o magari scoprire il talento di questo attore e anche quello del regista Charlie Kaufman che fino a questo momento avevamo avuto modo di conoscere solo come sceneggiatore di film culto quali Essere John Malkovich o Se mi lasci ti cancello.

Caden Cotard è un regista e commediografo che a un certo punto della sua vita comincia ad essere vittima di strani malesseri che vanno da disturbi ottici fino a crisi epilettiche incontrollabili. La sua vita privata non è delle migliori, viene improvvisamente mollato dalla moglie che lo priva anche della sua figlioletta Olive. Da questo momento in poi la sua mente comincia a vacillare e s’insinua in lui un’improvvisa paura della morte che in qualche modo deve esorcizzare. Lo fa attraverso la realizzazione di un’opera ambiziosa e senza tempo dove la logica non ha più ragione d’essere, dove non esiste più l’unicità della persona e tutti possono essere sempre qualcun altro in un continuo scambio di ruoli, in  un continuo rimando tra realtà e finzione tanto che ad un certo punto veniamo catapultati in universi paralleli che è inutile cercare di comprendere.

La morte è un qualcosa che riguarda tutti noi e fa tanta paura proprio perché risulta incomprensibile e non basta vestire i panni di qualcun altro per sfuggire alla sua presa. L’unica consolazione è pensare che avverrà il più tardi possibile, ma a differenza della vita non si può reinventare né tantomeno esplorare come cerca inutilmente di fare Cotard. Così restiamo sospesi tra mille domande e nessuna risposta e l’approccio migliore per questo film è proprio quello di abbandonarsi alla visione senza cercare spiegazioni razionali. L’unica cosa certa è che per Seymour rappresenta il suo film testamento e per noi che lo vediamo adesso un triste e inquietante presagio di quello che sarebbe accaduto non più di sei anni dopo.

Laura Pozzi

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