E’ notizia di queste ore che la disoccupazione in Italia ha raggiunto un nuovo record e si attesta al 13,6% nel primo trimestre 2014 volando al 46% tra i giovani con picchi esorbitanti nel sud Italia dove più di una persona su 5 non lavora.
Ciò che dovrebbe far riflettere è che la disoccupazione in Italia aumenta incessantemente dal 2004, segnando così l’undicesimo trimestre di crescita ininterrotto. Eppure dieci anni fa non si parlava ancora di crisi, di Lehman Brothers e di declino di civiltà, e seppur qualche guerra preventiva sbagliata di troppo, in quel periodo la situazione sui mercati era stabile. Il problema qui, seppur aggravato in Italia per la nostra crisi strutturale ormai congenita e quindi amplificato ancor di più nel meridione, riguarda tutta l’economia capitalista occidentale e dovrebbe far pensare ad una visione di ben più ampio respiro, rispetto invece a improbabili investimenti keyenesiani nel medio periodo per creare lavoro. Inutile insomma tornare a quello spirito roosveltiano anni ’30 in cui pur di dare occupazione si richiedevano persone per scavare delle buche e successivamente altre per ricoprirle.
Se si pensa alla ricca, solida e avanzata Germania dove la disoccupazione è circa al 5% si scopre che in realtà i tedeschi lavorano sempre meno ore e che è la loro maggiore e ottimizzata produttività che riesce a fargli guadagnare uno stipendio simile se non maggiore a prima, mentre la richiesta delle ore complessive lavorate è comunque inferiore. “Lavorare meno, lavorare tutti” è sicuramente quindi un buon motto a patto che non aumentando l’indice di produttività ciò non si traduca in “guadagnare meno, guadagnare meno tutti”.
Se ampliamo la visione ad un arco di tempo più vasto e se confrontiamo i vari dati di disoccupazione nei paesi occidentali vediamo come da 30 anni a questa parte è sempre aumentata, salvo alcune eccezioni dovute a piccoli boom economici come quello della new economy di fine anni ’90, è ritornata dopo poco tempo a crescere toccando valori ancor più considerevoli rispetto a prima.
Sulla fine del lavoro, mi viene in mente un libro di Jeremy RIfkin che porta proprio questo nome, uscito nei primi anni ’90 quando si attendeva e si profilava all’orizzonte la rivoluzione informatica con dei calcolatori sempre più potenti e accessibili a tutti e con una nuova rete di comunicazione digitale che al tempo, ancora non ben compresa, veniva chiamata “autostrada informatica” invece di internet (leggendolo nel libro fa quasi commuovere).
Beh, in quel saggio il premio Nobel per l’economia ripercorrendo la prima e la seconda rivoluzione industriale indica come il ciclo del lavoro è sempre stato ridondante, passando da momenti in cui emergevano nuove richieste e quindi nuove figure professionali, a momenti in cui questi stessi lavori venivano soppiantati dallo sviluppo tecnologico e dall’ottimizzazione produttiva, non rendendoli di fatto più utili; individuando però la tendenza complessiva nella sempre meno richiesta di occupazione, ad eccezione dei lavori per la cura della persona e quelli dei decifratori di simboli (broker, informatici ecc, che rappresentano una minima parte). Gli esempi principali sono nel settore agricolo, dove ormai è tutto meccanizzato e dove per condurre una società sono necessarie poche persone e molte macchine, fino ad altri settori come quello della grande distribuzione alimentare o dei pagamenti automatici (self service, caselli autostradali, ecc). Ha fatto notizia proprio in questi giorni l’assunzione da parte di amazon di 10mila nuovi robot per i loro magazzini e il discorso si amplia se si pensa soltanto un attimo alla potenzialità delle nuove stampanti 3d che troviamo già nei supermercati e che ci permetteranno di crearci in casa tutto ciò di cui abbiamo bisogno.
Scriveva così Rifkin nel 1995 e forse aveva già intravisto ciò che sarebbe poi stata la crisi del 2008 e l’attuale recessione di “incalcolabile grandezza e durata”:
Per più di un secolo, gli economisti hanno convenzionalmente accettato come un dato di fatto la teoria che afferma che le nuove tecnologie fanno esplodere la produttività, abbassano i costi di produzione e fanno aumentare l’offerta di beni a buon mercato; questo, in conseguenza, migliora il potere d’acquisto, espande i mercati e genera più occupazione. Tale assunto ha fornito il supporto razionale sul quale si sono fondate le politiche economiche di tutte le nazioni industrializzate. Questa logica sta oggi conducendo a livelli mai registrati finora di disoccupazione tecnologica, a un declino apparentemente inarrestabile del potere d’acquisto e allo spettro di una recessione globale di incalcolabile grandezza e durata.
Analizzando queste profetiche parole di venti anni fa, si capisce come il problema non sia strettamente economico, quanto piuttosto evolutivo. Siamo arrivati ad un punto della nostra storia i cui potremmo non aver più bisogno di lavorare per sopravvivere e se riuscissimo a riallocare le risorse in modo più equo e ad ottimizzare le nuove tecnologie in chiave di energia distribuita, potremmo entrare in una terza rivoluzione industriale in cui saremmo liberi dal ricatto del lavoro inteso come semplice occupazione e dove potremmo perseguire i nostri scopi e le nostre naturali inclinazioni.
La soluzione pratica a tutto questo? L’autore del libro la trova nel reimpiego dei disoccupati all’interno del Terzo Settore, con impieghi socialmente utili retribuiti dallo Stato che altrimenti li dovrebbe comunque sovvenzionare tramite sussidi ed aiuti di vario genere e che quindi riuscirebbe al tempo stesso a far quadrare i propri bilanci. E’ chiaro che, andando anche oltre rispetto alla tesi di RIfkin presa come spunto di riflessione, la soluzione definitiva è inutile dirlo è il reddito di cittadinanza, così come è stata già pensata e proposta tramite referendum nella ricca Svizzera (seppur bocciato proprio in queste ultime settimane, forse perchè l’importo prefissato era troppo elevato anche per loro). Ma non inteso come reddito garantito in caso in cui si perda il lavoro, no. Per reddito di cittadinanza si deve intendere un corrisposto che lo Stato dà ai propri cittadini per il sostentamento, da applicare alle singole persone quindi e non alle famiglie e indipendentemente se si lavora oppure no. Una sorta di tutela di sussistenza che permetterebbe di sopravvivere e allo stesso tempo di ambire a trovarsi una professione magari più adatta alle proprie esigenze e non necessariamente remunerata.
Vivremmo sicuramente in una società più soddisfatta e svincolata da quest’ansia del “produci, consuma, crepa” che ha caratterizzato tutto il periodo di sviluppo industriale, dalla prima meta dell’800 quando in virtù di questo spirito si impiegavano anche i bambini di sei anni come minatori e operai, fino ai giorni nostri in cui, seppur abbiamo fatto passi da gigante in tema di diritti (anche perchè se così non fosse stato sarebbero scattate numerose rivoluzioni per presa coscienza di classe), non siamo riusciti ancora a ragionare finalmente in termini davvero nuovi, in particolare sul tema dei diritti di esistenza e, per l’appunto, di cittadinanza.
Filippo Piccini