Ciascuno di noi, credente o no, si è fatto un’idea sul papa che lascia. Il circo mediatico si è buttato a capofitto sulle interpretazioni, da quelle più umane, “è vecchio e stanco”, a quelle più intriganti, “lascia per coprire un fallimento di una chiesa ingovernabile”, del suo abbandono.
Il tempo dirà la sua verità. Anche il giudizio sul papato è assai variegato. C’è chi lo considera un grande papa, chi lo descrive come incapace di succedere al papa polacco, chi ne ha apprezzato la cultura profonda. Non è stato un papa che ha emozionato. La sua Chiesa è stata travolta da scandali terribili. Il suo episcopato non è mai apparso così diviso e così ricco di lotte intestine e persino complotti. Le dimissioni sono state un gesto di grande umanità.
È il limite umano che il papa ha voluto sottolineare rendendolo più forte persino dell’investitura divina. Questo papa Ratzinger dice al mondo. Dice che c’è un tempo per tutto e che la gestione di un potere, nel caso della Chiesa molto concreto e al tempo stesso immateriale, deve conoscere un punto d’arrivo che precede la morte. È una grande lezione per tutti gli uomini potenti, l’ammissione che vi è un tratto della vita che è dedicato alla cura di sé, alla propria anima, all’allontanamento dolce dalla quotidianità e dalla gestione degli altri.
Trovo bizzarre le domande su quanto possa pesare il ritiro di Benedetto XVI sulla campagna elettorale italiana. Maledetto provincialismo. Un papa che lascia è vicenda che parla ai credenti, che testimonia i limiti dell’uomo in carne e ossa e non può essere tradotto nelle miserie di una competizione politica. Tranne in un senso. Che ci costringe a pensare in modo meno guerriero allo scontro fra le idee e fra le persone introducendo una soglia di umanità invalicabile. Il mondo che Ratzinger ci lascia ha più conflitti religiosi di quanti ne abbia trovati, ha più divisioni nel cattolicesimo di quante ne abbia voluto sanare, rivela una Chiesa potente e fragilissima. Il papa in un immenso sforzo intellettuale ha voluto dare una prova di razionalità alla fede confrontandosi con il pensiero moderno.
È stato innovatore e scolastico. Se guardiamo al suo papato nel crogiuolo delle grandi religioni vediamo la stessa ansia universalistica ma anche che la sua chiesa non è stata una chiesa di guerra malgrado le chiusure al mondo moderno. Il cattolicesimo oggi, pur attraversato da componenti radicali e spesso illiberali, ha la singolarità di essersi fatto più plurale e al tempo stesso meno capace di organizzare il suo gregge. Il papa ha voluto proporre una dottrina valida per tutti, ha combattuto le “eresie” latino-americane e la modernizzazione che veniva dalla stessa chiesa tedesca e austriaca, ma non è riuscito a dare alla sua gente un riferimento condiviso.
Non c’è categoria più fragile che quella racchiusa nel termine “cattolico”, che ormai non definisce più un unico modo di pensare al mondo e di stare nel mondo. Hans Kung, l’italiano Mancuso, il teologo Matthew Fox hanno sottoposto il papato a una requisitoria senza scampo quasi a dimostrare l’attualità di un revisione radicale dei fondamenti della Chiesa e soprattutto dell’organizzazione vaticana. Il papa che verrà dovrà misurarsi con una doppia eredità, quella profetica del papa polacco e quella dottrinale del papa tedesco. L’augurio è che la Chiesa sappia scegliere un erede di Pietro in grado di parlare al mondo d’oggi, che sappia darci un uomo la cui grandezza sappia comprendere i drammi della nostra epoca, che dia un papa a tutti e non solo ai cattolici.
da Linkiesta.it