EUROPA DEVI REAGIRE, L’ASIA VA VERSO L’ALLEANZA COMMERCIALE

unione europea ragazza farfallaSi chiama Tpp (Trans Pacific Partnership) ed è l’accordo commerciale che potrebbe cambiare il volto di molte economie asiatiche. Ovviamente ci sono resistenze ma le implicazioni sono importanti anche per noi europei. Che dovremo fare un accordo simile con gli Usa. Ma la politica deve iniziare a parlarne.


Per le nuove amministrazioni in Corea e Giappone, una delle prime decisioni importanti sarà se aderire o meno al progetto TPP (Trans-Pacific Partnership), l’accordo commerciale di nuova generazione che potrebbe cambiare il volto della zona più dinamica dell’economia mondiale, per l’appunto il bacino dell’Oceano Pacifico.

Il presidente Lee Myung-bak, indebolito già di suo perché considerato incapace di reagire all’aggravarsi dei problemi sociali di un’economia sud-coreana peraltro sempre dinamica, è stato un’anatra zoppa nel 2012 per il divieto costituzionale a candidarsi alla sua successione. Anche il suo partito ha preso le distanze in un anno con due scadenze elettorali (le legislative ad aprile e le presidenziali a dicembre) e in queste circostanze non sorprende che Seoul non abbia preso nessuna decisione sul TPP. In più, l’acuirsi delle dispute territoriali con Tokyo ha impedito l’accordo sull’intercambio d’informazioni a carattere militare e nessun progresso è stato fatto con Washington su altre questioni di difesa e di armamenti nucleari.

Forse più sorprendente che il TPP sia stato a malapena menzionato durante la campagna elettorale – nel 2008 il semplice annuncio di voler aprire il mercato domestico all’importazione di carne americana era bastato per suscitare un vasto movimento d’opposizione, un “Occupy Seoul” successivamente esteso al progetto di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti poi entrato in vigore nel marzo di quest’anno. Ma evidentemente in questi tempi di crisi l’opinione pubblica è convinta che la politica commerciale serve per garantire miglior accesso di mercato per i prodotti coreani, anche in Europa con cui il trattato di libero scambio è operativo dal primo luglio 2011. E del resto la Corea, che già ha accordi bilaterali con la maggior parte dei soci del TPP, ha presentato la candidatura dell’attuale ministro del Commercio, Bark Tae-ho, per succedere a Pascal Lamy come direttore generale della World Trade Organization (WTO).

In Giappone in compenso Yoshihiko Noda, il primo ministro uscente, aveva promesso di accelerare l’ingresso nel TPP, anche se all’atto pratico fino a quando esercitava il potere non era andato oltre le vaghe promesse. Shinzo Abe sembra determinato a fare il gran passo, come del resto sembra convinto della necessità di concludere un accordo bilaterale con l’Unione Europea, malgrado le prevedibili proteste degli agricoltori del Sol Levante.

In campagna elettorale il Partito Liberal-Democratico di Abe e il suo socio di colazione, il Partito del Nuovo Komeito, si erano detti contrari a partecipare al TPP se la condizione fosse stata di abolire “indiscriminatamente” la protezione tariffaria dell’agricoltura nipponica. Dopo aver vinto, anzi stravinto, il discorso è mutato, l’obiettivo è “seguire il percorso che meglio può garantire l’interesse nazionale del Giappone”: che secondo Hiromasa Yonekura, presidente del Keidanren, la Confindustria giapponese, consiste proprio nell’aderire quanto prima ai negoziati del TPP.

Quattro anni sono passati da quando si è iniziato a negoziare il TPP, estendendo a Australia, Malesia, Peru, Singapore, Stati Uniti e Vietnam il Trans-Pacific Strategic Economic Partnership Agreement (TPSEP o P4) firmato nel 2005 da Brunei Darussalam, Cile, Nuova Zelanda e Singapore. Al quindicesimo round di negoziazioni, tenutosi ad Auckland appena un mese fa’, alla lista si sono aggiunti Canada e Messico. E la coda alla porta si fa più lunga: Taiwan, le Filippine, Laos (che è così poco trans-pacifico da non avere neppure accesso al mare ..), Colombia e Costa Rica, oltre che la Tailandia che ha annunciato la sua attenzione di aderire in occasione della recente visita di Barack Obama.

All’apparenza il TPP non è che il più recente in una lunga serie di accordi bilaterali e plurilaterali che seguono il fallimento del Doha Development Round che avrebbe dovuto coronare l’agenda di Lamy: liberalizzazione commerciale multilaterale al servizio di una sviluppo più giusto e inclusivo. Nelle intenzioni dell’amministrazione Obama, però, il TPP, oltre che ambizioso nella sua composizione (quasi un terzo del PIL mondiale, con Giappone e Corea), dovrebbe essere anche un modello, magari pure il modello, di accordo commerciale con standard molto elevati. Un colpo a destra con l’inclusione dei diritti della proprietà intellettuale, uno a sinistra con l’attenzione alla legislazione in materia di ambiente e di lavoro.

Non c’è dubbio che gli interessi in gioco siano complessi e importanti. Per gli Stati Uniti è prioritario un accordo con l’Asia e il Pacifico, la regione del mondo verso cui sta riorientando tutte le sue politiche, economiche ma anche militari. Anche se nessuno lo dice apertamente, è ovvio che, anche nel rispetto delle regole del WTO e dell’estensione a tutti del principio della nazione più favorita, nei paesi firmatari un TPP senza Cina garantirebbe condizioni più favorevoli agli esportatori americani, giapponesi e coreani. E la Cina non sembra comunque molto interessata a un TPP in cui si discute di competitive neutrality – le politiche da mettere in atto per garantire le imprese private di fronte ai possibili abusi da parte di quelle pubbliche, che notoriamente la fanno da padroni in Cina.

Ma ovviamente non è tutto rosa e fiori e al tavolo delle trattative ogni partner ha le sue priorità. Per esempio, oltre che l’agricoltura, per il Giappone i settori sensibili sono le automobili, un mercato che invece in Corea è ormai poco protetto quantomeno dal punto di vista tariffario, e i servizi finanziari, in particolare assicurativi. Per ambedue, e per molti altri, mantenere un certo margine di preferenza nazionale per gli appalti pubblici, soprattutto per le grandi infrastrutture energetiche e dei trasporti, è una sorta di linea rossa da non superare. Soprattutto se Washington non è disposta a sua volta a fare delle concessioni, tanto più importanti perché la parola dell’amministrazione durante le trattative non impegna comunque in alcun modo il Congresso e il Senato, pronti a mettere il bastone tra le ruote dello zelo liberale della Casa Bianca. In più l’opinione pubblica, o quantomeno i gruppi anti-globalizzazione, sono molto critici e accusano l’amministrazione Obama di voler imporre un’apertura indiscriminata anche a paesi ancora fragili, di includere nelle negoziazioni temi nuovi come i brevetti e di mancanza di trasparenza rispetto a tutto il processo.

Le implicazioni sono altrettanto importanti per l’Europa e sarebbe utile se anche in Italia se ne parlasse – senza essere così ingenui dal pensare che soggetti del genere possano distrarre i nostri candidati. Meglio preparare velocemente le contromosse se non si vuole che l’Europa perda ulteriori passi nella tenzone della competitività globale, sapendo che per una volta le armi a disposizione sono tante. La più ovvia è accelerare sul fronte degli accordi con il Giappone e l’ASEAN. Nel medio periodo, ma senza aspettare le calende greche, andrà firmato con gli Stati Uniti un accordo di libero scambio (che oltretutto l’Unione Europea ha già con Canada e Messico) che faccia da contraltare atlantico al TPP.

Soprattutto, le necessarie riflessioni sull’unione bancaria e sul coordinamento fiscale non devono essere la scusa che distrae le cancellerie europee dalla realizzazione del mercato unico. Nel 2013 si celebra il venticinquesimo anniversario della pubblicazione del Rapporto Cecchini, realizzato su richiesta di Jacques Delors per quantificare i costi della non-Europa. Ancora oggi le barriere alla circolazione intra-europea dei beni, e soprattutto dei servizi, sono enormi. Per non parlare poi degli ostacoli alla mobilità delle persone, che impediscono all’Eurozona di acquisire le caratteristiche di una zona monetaria ottimale. Come notava Mario Monti nel rapporto rimesso al presidente Barroso nel maggio 2010, “il mercato unico ha cominciato ad essere percepito come una cosa d’altri tempi, che necessita di una manutenzione periodica, ma non di una promozione attiva”. Proprio perché il resto del mondo sta accelerando, sarebbe cosa buona e utile che i dirigenti europei mostrassero maggiore leadership e promuovessero la realizzazione del mercato unico come la principale iniziativa a costo zero che rimuova il Continente dalle secche della recessione.

da Linkiesta.it

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