ISRAELE COLPISCE GAZA PER AVVERTIRE TEHERAN
Elenco di attacchi e vittime attraverso cui esaltare la durezza di chi colpisce e ottenere solidarietà per chi subisce. Ma la partita è ben più vasta.
Le cause apparenti. Nel pomeriggio del 14 novembre, durante un raid aereo dell’ “Israel Defence Force” (Idf), Ahmed Said Khalil Jabari viene ucciso da un missile mentre viaggiava a bordo di un’auto in Gaza City insieme alla guardia del corpo. L’operazione israeliana segna l’inizio dell’ “Operation Pillar of Defence” che punta a colpire 20 siti ritenuti depositi di armamenti tra cui numerosi razzi a lunga gittata Fajr-5 in grado di raggiungere Tel Aviv. “Danni collaterali”, altre 13 vittime tra i palestinesi, compresa una donna e due bambini. Molti i conti da saldare tra Israele e il capo militare di Hamas. Ultimo, in ordine di tempo, il sequestro del sergente dell’Idf Gilad Shalit (giugno 2006) sino alla liberazione (2011), ottenendo in cambio 1.046 detenuti palestinesi.
La catena degli eventi. L’operazione israeliana in corso rompe la fragile tregua siglata con la mediazione dell’Egitto, intervenuto per interrompere le ostilità che in soli quattro giorni avevano provocato vittime e feriti a Gaza e, dall’altra parte, il lancio di 150 razzi che avevano colpito Sderot e ulteriori danneggiamenti in alcuni villaggi nel sud di Israele. Un altro fronte di guerra asimmetrica con troppi attori coinvolti. Hamas, anche se sunnita, è ritenuta un “avamposto iraniano”, secondo quanto dichiarato dal portavoce dell’Idf Yoav Mordechai, insieme ad altre formazioni armate della Striscia. Farebbe parte, insomma, della “mezzaluna sciita”. Nella reazione, Hamas ha lanciato circa 260 razzi (tra cui i Grad), che hanno provocato la morte di 3 persone e il ferimento di un’altra.
La miccia è stata accesa. Che succede e cosa ancora potrà accadere nella regione con gli Usa hanno appoggiato subito l’azione di Israele, che continuerà gli attacchi, mentre l’Egitto l’ha condannata, ritirando anche l’Ambasciatore a Tel Aviv, e gli esponenti del movimento islamico hanno minacciato pesanti ritorsioni? Proviamo ad individuare i punti salienti. Si parte, come sempre, dalla politica. All’inizio di novembre il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anr), Mahmoud Abbas -noto come Abu Mazen- nel corso di un’intervista ad una Tv israeliana aveva dichiarato che lo Stato di Palestina dovrà comprendere Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza e che lui, profugo di Safad (suo luogo di origine) non intende rientrarvi. Polemica interna palestinese.
Il diritto al ritorno. Le parole del Presidente Mazen hanno suscitato forti critiche da parte dei palestinesi che le hanno intese come una rinuncia, per tutti i quasi 5 milioni di profughi, al diritto di ritorno sancito dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, risoluzione -tra le molte- mai accettata da Israele, tanto da costringerlo a chiarire che parlava a titolo personale. Altri punti di crisi. 1) Lo stallo nei negoziati con Israele che continua a costruire colonie nei Territori Occupati. 2) Il mancato accordo elettorale con Hamas e la debacle di Fatah nelle amministrative di ottobre che, senza la partecipazione di Hamas che le ha boicottate, ha perso nelle città più grandi, fra cui Ramallah, sede del Governo e del Presidente. 3) La crisi economica grave, mettono di fatto l’Anp all’angolo.
Ed ecco l’Asse sunnita. La prova viene dalle recenti visite a Gaza, tra fine ottobre e inizio novembre da parte di esponenti di spicco dell’ “Asse sunnita”. In poco più di una settimana hanno incontrato il premier Ismail Haniyeh tre capi di Stato. Primo l’Emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa al-Thani. Dettaglio fondamentale: in Qatar, Khaled Meshal, segretario uscente della Direzione Estera di Hamas e i suoi maggiori collaboratori hanno spostato da Damasco la residenza. Poi il principe del Bahrein, Nasser bin Hamad al Khalifa e il Premier turco, Recep Tayyip Erdogan, tutti portatori di importanti supporti finanziari e politici per l’ “emirato islamico” di Gaza. L’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen, di fatto, sempre più ai margini di una partita politica che coinvolge tutto il medio oriente.
Anp rilancia sull’Onu. Posizione di debolezza interna che aiuta a capire la decisione di Abu Mazen di presentare all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la richiesta di adesione come “Stato non membro osservatore” -status simile a quello del Vaticano- dopo che l’anno precedente era stata respinta dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU quella come “Stato membro”. In sintesi, il Presidente Abbas fa sua la proposta di Marwan Barghouti (il leader di Fatah in Cisgiordania e capo del Tanzim, in arresto dal 15 aprile 2002 in Israele e condannato a 4 ergastoli), di abbandonare la trattativa sterile con Israele e rivolgersi all’Onu per il riconoscimento. Per ottenere l’adesione la Palestina avrà bisogno della maggioranza semplice e, al momento, 115 stati sono pronti a votare a favore e 56 le possibili astensioni.
La Palestina all’Onu. L’eventuale adesione -quindi il sostanziale riconoscimento di Stato- consentirebbe alla Palestina di accedere a vari organi dell’Onu e, in particolare, alla Corte Internazionale di Giustizia, dove denunciare l’occupazione israeliana e chiedere l’incriminazione dei suoi dirigenti, politici e militari. L’iniziativa ha subito suscitato il fuoco di sbarramento degli Usa, il cui neo-rieletto presidente Obama ha preannunciato il voto contrario, e di quello israeliano, che ha minacciato il congelamento della raccolta e del trasferimento delle tasse dovute all’Anp (secondo il Protocollo economico di Parigi del 1994), che impedirebbe all’ Anp persino di pagare gli stipendi al personale. Oltre a definire l’iniziativa palestinese la fine degli inconcludenti “colloqui di pace”.
L’influenza delle guerre vicine. La decisione israeliana di condurre un’altra campagna militare a Gaza è -singolarmente- contemporanea alla formazione a Doha del “Comando Nazionale delle Forze dell’opposizione” (Cnfo) -subito riconosciuto come “legittimo rappresentante del popolo siriano”- da parte del “Consiglio di Cooperazione del Golfo” (Ccg) e accolto dalla Nato come un significativo avanzamento della lotta contro il regime di Damasco. Sincronia perfetta col bombardamento, da parte di Israele, del campo profughi palestinese di Yarmouk, a 40 km da Damasco. Eventi che segnalano l’interesse di certa parte della Comunità Internazionale a depotenziare la valenza politica degli incontri svolti a Gaza da Hamas con Qatar, Bahrein e Turchia.
Hamas subito, l’Iran domani. L’attacco a Gaza appare così solo una parte della strategia israeliana, che punta a depotenziare militarmente Hamas, minaccia immediata ma non mortale per la sicurezza, per concentrare subito dopo tutti gli sforzi contro l’Iran, minaccia non immediata ma esiziale. Finalità per la quale il premier Netanyahu ha ottenuto l’anticipo delle elezioni al 22 gennaio 2013, sicuro di consolidare la sua posizione con una significativa maggioranza. La guerra civile in Siria, la ripresa del confronto sciiti-sunniti in Libano, la fragile situazione dell’Iraq devastato dalle continue stragi, l’escalation dello scontro fra curdi siriani e l’esercito turco disegnerà un nuovo quadro geo-politico nell’intero scacchiere. Con tanti, troppi distratti o complici.
da Globalist.it