È L’ORA DI UN NUOVO MUTUALISMO
Negli ultimi mesi l’impatto della crisi economica sulla vita quotidiana delle persone è andato via via aumentando, costringendo famiglie e imprese a rivedere completamente le proprie prospettive di futuro. Intanto molti Stati europei rischiano di restare in pratica senza soldi, con cui non hanno più le risorse per garantire i servizi a cui eravamo abituati fino a qualche decennio fa.
Ora lo Stato non ci può salvare. Sicuramente la politica potrebbe fare qualcosa di più affiancando alla logica dell’austerità e del rigore – e quindi del primato del mercato e della concorrenza che dovrebbero generare crescita – un nuovo protagonismo del settore pubblico che incentivi uno sviluppo sostenibile e tecnologicamente avanzato.
Non possiamo immaginare però che lo Stato possa riproporre la visione economica degli anni ’70 basata sull’interventismo diretto dei governi, per esempio nel settore industriale, sulla crescita incontrollata del debito, sulla svalutazione competitiva. Ora la globalizzazione, l’interdipendenza dei mercati, il potere della finanza internazionale ma anche l’andamento demografico del mondo disegnano un nuovo scenario, dai contorni non ancora del tutto definiti. Scrive Stefano Zamagni: “La crisi fiscale dello Stato e l’allargamento della forbice tra risorse disponibili e ampliamento della gamma dei bisogni – entrambi i fenomeni conseguenza sia della globalizzazione sia della Terza rivoluzione industriale, quella delle tecnologie infotelematiche – ha reso palese a tutti la crisi entropica (e non già congiunturale) del welfare state”.
Per ora l’eclissi dello Stato ha fatto emergere la forza caotica del mercato che trova la sua energia propulsiva nel modello consumista, sempre in ricerca di nuovi territori a cui offrire i propri prodotti e sempre più affamato di risorse naturali che purtroppo cominciano a scarseggiare. La sfida di oggi è quella invece di mettere al centro la società, il protagonismo delle libere associazioni, le organizzazioni che operano nel sociale, il mondo del volontariato, il terzo settore.
È chiaro a tutti che lo Stato arranca ma le risposte a questa situazione possono divergere completamente. L’ideologia iperliberista sognava uno Stato minimo che lasciasse alle capacità del singolo di sprigionarsi positivamente senza però curarsi dell’insieme della comunità. Dall’altro lato incontriamo il modello solidaristico che vede le persone mettersi insieme per gestire servizi, per venire incontro anche dei bisogni dei più deboli, per creare benessere diffuso, per realizzare un modello di comunità che non soddisfa soltanto i bisogni materiali ma anche quelli relazionali. Ancora Zamagni: “Oggi sono soprattutto le cosiddette scarsità sociali e non tanto quelle materiali a fare problema”. Per far fronte a questo bisogna riscoprire il modello mutualistico e cooperativo.
In futuro molteplici attori si muoveranno sulla sfera pubblica in una articolazione della società costituita da numerosi soggetti concorrenti o in sinergia tra di loro. Esse dovranno essere in grado di supplire, almeno in parte, alle carenze di uno Stato che certamente non scomparirà ma che avrà un profilo sostanzialmente diverso rispetto ad oggi. Ritorniamo per certi versi indietro, al Basso medioevo quando, nell’epoca dei comuni, le città – governate per lo più da sistemi “democratici” e partecipativi – vedevano un pullulare di confraternite, corporazioni, gilde, società di cittadini che spaziavano da “arti e mestieri”, al commercio, alla gestione dei primi rudimentali servizi offerti alla comunità. Si tratta di esperienze mutualistiche che verranno meno, secoli e secoli dopo, soltanto quando l’istituzione pubblica, che si organizzerà concentrando il potere, avocherà a sé queste prerogative.
Il mutualismo moderno nasce intorno al 1830 in seno a una tradizione socialista lontana dal collettivismo e dal successivo ideale marxista di uno Stato senza classi. Due teorici, Owen e Proudhon, parlavano per esempio di “mercati di equo lavoro, di legami tra piccoli produttori e consumatori … (sostenendo) la creazione di banche di credito gratuito, di cooperative di consumo”. Le lotte dei lavoratori a cavallo dei due secoli si concretizzeranno nella richiesta di riforme ma anche nella nascita delle leghe operaie, delle camere del lavoro, delle associazioni di mutuo aiuto. Le conquiste ottenute in decenni di scioperi e mobilitazioni avranno l’effetto di rendere superflue queste istituzioni poiché sarà lo Stato a prendersi carico univocamente per esempio con il sistema sanitario universale, con la previdenza garantita, insomma con quello che conosciamo come welfare state. Oggi, in seguito al declino di questo modello, ritorna la pluralità di soggetti.
È necessario distinguere però nettamente una certa interpretazione del ruolo del privato sociale, sostituto di un ambito pubblico (statale o locale non fa differenza) che si ritira secondo la logica neoliberista, ma replicante la stessa farraginosità e inefficienza, con quella tipica del terzo settore che si basa su altre caratteristiche. Non cambia nulla, per fare un esempio concreto, che la sanità lombarda, secondo il modello Formigoni, sia gestita da aziende profit o no profit legate a una fitta rete di amicizie personali, oppure sia interamente affidata alla Regione. Scrive Lorenzo Guadagnucci nel libro “Il nuovo mutualismo”: “La prospettiva non è l’accettazione di minori garanzie, né la sostituzione più o meno precaria dello Stato che batte in ritirata, ma quella di dare dignità sia economica sia politica alla capacità di autorganizzazione. Si tratta di applicare davvero il principio di sussidiarietà e di farlo in modo che la partecipazione, la reciprocità e l’autogestione ne siano i tratti caratterizzanti”.
Non si tratta dunque di un volontariato che tampona le emergenze oppure di un settore privato che prende il posto del pubblico, ma lo scenario futuro chiama a una revisione dell’approccio complessivo. Occorre dare spazio alla logica del dono e al principio di reciprocità. Spiega egregiamente Francesco Pallante: “Dal punto di vista strutturale, il dono si basa invece sul sentimento di fraternità che unisce i membri di una medesima comunità; una fraternità circoscritta a una cerchia predeterminata di persone, dunque, ma comunque una fraternità che ha una dimensione pubblica, non è confinata nell’ambito dei rapporti interpersonali. Solo la fiducia nel prossimo, il riconoscere nell’altro un proprio simile, la condivisione delle medesime aspettative, consente di avviare il meccanismo del dono. Il dono di ritorno – e, quindi, il protrarsi della relazione così innescata – sarà la miglior conferma della fiducia prestata all’inizio, consolidando l’apertura verso l’altro e stabilizzando la relazione interpersonale”.
Da ciò deriva uno scambio continuo nella dimensione della solidarietà, un dare e ricevere che cementa una relazione destinata a migliorare la qualità complessiva della vita. Dal dono scaturisce il mutualismo. Scrive ancora Pallante: “Passando dal livello individuale a quello collettivo, corrispettivo del dono è l’ente mutualistico, vale a dire l’ente che riunisce i membri di una comunità in vista della realizzazione di obiettivi comuni. Significativamente, la stessa etimologia della parola comunità (dal latino cum munus) mette in luce il legame esistente tra dono (e quindi persona) e comunità (e quindi ente mutualistico).
A fondamento dell’ente mutualistico c’è il sentimento di reciproca solidarietà che lega persone le quali – sentendosi parte di una medesima comunità – attraverso l’ente partecipano congiuntamente alla realizzazione di un’attività della quale sono, nel contempo, realizzatori e, almeno potenzialmente, beneficiari. L’ente mutualistico opera nell’interesse della comunità, occupandosi di aspetti della vita collettiva cui le singole persone non sarebbero in grado di far fronte (o non sarebbero in grado di farlo in maniera altrettanto efficiente). Non si tratta – evidentemente – di finalità aventi carattere economico: l’attività dell’ente mutualistico è, sotto questo profilo, disinteressata; è però attività interessata se si guarda al benessere della comunità. Lo scopo dell’ente mutualistico è il bene comune”.
I beni comuni, che vanno distinti dai beni pubblici, non possono essere gestiti e consolidati attraverso la logica del mercato ma soltanto mediante il principio di reciprocità che è capace di instaurare un rapporto di mutualità. Questo tipo di beni sono di solito connessi strettamente a un determinato territorio: le associazioni della società civile saranno dunque legate a una comunità, saranno fortemente radicate anche geograficamente a uno spazio circoscritto. La solidarietà, che implica un dare e ricevere continui, non può concretizzarsi se non in un incontro di persone che si conoscono, che condividono gli stessi ideali, che viaggiano nella stessa direzione, che abitano materialmente e virtualmente in uno stesso territorio.
da unimondo.org